Corriere della Sera, 27 novembre 2024
Milano non è in grado di parlare a questi ragazzi
Le indagini sulla morte di Ramy non spegneranno le proteste. Gli amici che bruciano rifiuti e barricate in nome della «giustizia» per il 19enne morto domenica notte in via Ripamonti, non lo fanno solo per «reazione» alla scomparsa dell’amico. In mezzo ci sono una rabbia covata nel tempo, un odio verso carabinieri e polizia frutto di canzoni e perfino moda giovanile, e anche un po’ di onanismo social, con i video che diventano virali su TikTok e l’impressione di essere a metà tra una banlieue parigina e un videogioco. La rabbia è alimentata anche da fake news e sospetti nei confronti dei carabinieri. Una protesta diventata un cortocircuito al quale adesso è complicato mettere fine. Se davvero ci sono state responsabilità da parte delle forze di polizia nella morte di Ramy, capirlo sarà lungo e complesso. Nei video delle telecamere posizionate all’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti non c’è la chiarezza del Var. Lo scooter su cui fuggivano i due amici e la pattuglia dei carabinieri sono molto vicini quando svoltano. Il pm Marco Cirigliano ha iscritto nel registro degli indagati sia il 22enne alla guida dello scooter, sia il carabiniere che guidava la pattuglia all’inseguimento, in vista dell’autopsia sul corpo di Ramy. Ma per chiarire davvero come sono andate le cose serviranno una serie di esami e consulenze. Il Comando provinciale dell’Arma non esclude che l’urto possa essere avvenuto. Ma la certezza di un impatto e di quale entità ancora non c’è.
Adesso il problema principale è quello di riuscire a fermare quest’onda di violenza, per fortuna ancora limitata, prima che diventi altro. Sono anni che si ripete come anche le periferie milanesi possano diventare da un momento all’altro lo scenario delle banlieue parigine. La convinzione di molti è che ci fosse da attendere soltanto una scintilla. In questi giorni il problema, come al solito, è stato gestito dalle forze dell’ordine. Anche chi ha in testa una certa immagine della polizia degli Anni di piombo, si rassegni perché i primi a pensare di non essere la soluzione sono proprio i poliziotti. In Questura c’è preoccupazione ed è inevitabile. Per questo sono stati chiamati rinforzi da Roma. Uno dei timori più grandi è che alla protesta spontanea degli amici di Ramy si unisca ora la strumentalizzazione di alcuni esponenti dell’area anarchica. E i militanti del Galipettes hanno battuto un colpo. Finora i centri sociali sono rimasti a guardare, forse per capire semplicemente cosa ci sia da perdere o da guadagnare. Il fatto che molti ragazzi che protestano siano figli di immigrati, di seconda o terza generazione, o appena arrivati a Milano senza nessun tessuto familiare, è un elemento vero e non secondario. L’ultima cosa da fare adesso è quella di dare argomenti a questi giovani per odiare davvero polizia e carabinieri come sentono ogni giorno nelle canzoni. Il vero problema è che Milano non è in grado di parlare a questi ragazzi, nessuno è in grado o ha l’interesse di dialogare con questi ragazzi. Servono educatori, personaggi per loro credibili che siano in grado di spiegare come stanno le cose, che possono fidarsi del lavoro dei magistrati, che questa rabbia non serve a nulla e semmai va incanalata nel ricordo del loro amico. Il problema è che spesso a parte l’opera solitaria di qualche educatore, professore, prete, non c’è nessuno che si preoccupi di loro. Forse la prima domanda che si devono fare le istituzioni, e soprattutto la politica, è quella di capire come intervenire subito parlando a questi ragazzi, raccontandogli che sono parte della città e non in un videogioco. Se qualcuno ha sbagliato ci sarà la giustizia, se nessuno ha sbagliato allora resterà la tragedia e un ragazzo da piangere. Ma la città che distruggono è anche la loro. Nonostante si sentano, ogni giorno, stranieri a Milano.