Corriere della Sera, 27 novembre 2024
Il Tesoretto di Latini, che anticipò la Commedia
Al maestro di Dante, Brunetto Latini, si deve la prima enciclopedia scritta in una lingua volgare. Intellettuale e politico fiorentino tra i più importanti del suo tempo, Brunetto fu autore del Tresor, libro-scrigno redatto in francese durante l’esilio a Parigi, cui si consegnò per oltre cinque anni dopo la battaglia di Montaperti che nel 1260 vide la vittoria ghibellina.
Notaio figlio di un altro notaio, Brunetto nacque tra il 1220 e il 1230 e morì nel 1294. Ebbe una carriera politica di primo piano non solo nella sua città, dove tornò dopo la vittoria guelfa del 1266, svolgendo compiti importanti anche per conto degli angioini, fino a essere nominato priore nel 1287. Giovanni Villani lo descrive come «uno valente cittadino (…), il quale fu gran filosofo, e fue grande maestro in rettorica tanto in bene saper dire come in bene dittare», sottolineandone così la doppia qualità di oratore e di epistolografo ufficiale. Il cronista gli attribuisce per di più un merito storico nel «digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica». Gianfranco Contini sottolineò come la «rettorica» (con la doppia t) fosse intesa quale disciplina utile ai «rettori» (e «dittatori»), cioè ai governanti, segnalando la stretta relazione tra l’arte di ben parlare e l’esercizio della politica: collegamento che oggi sembra del tutto tramontato.
Sempre Villani definisce il Latini «mondano uomo», probabilmente alludendo con l’aggettivo («mondano», ovvero dissoluto) al peccato di sodomia che a quell’epoca era considerato gravissimo sia dallo Stato sia dalla Chiesa e che fu probabilmente all’origine della condanna dantesca all’Inferno: come è noto, Brunetto compare nel canto XV tra i peccatori contro natura, e qualche eminente studioso, pur non escludendo del tutto l’omosessualità, ha sostenuto che la vera colpa «contro natura» compiuta dal maestro fu per Dante quella di aver tradito il proprio volgare per adottare la lingua francese nella scrittura del Tresor. Nonostante tutto, la devozione e la gratitudine del discepolo si esprimono nel canto in versi pieni di umanità e di affetto rivolti alla «cara e buona imagine paterna» che insegnò a Dante «come l’uom s’etterna», cioè come l’uomo possa acquisire la gloria attraverso le opere virtuose. Va poi ricordato che nel congedarsi dall’amato allievo, Brunetto gli affida il futuro della sua opera: «sieti raccomandato il mio Tesoro/ nel qual io vivo ancora».
Il Tresor, oggi leggibile in una notevole edizione dei Millenni einaudiani, raccoglie elementi di teologia, di storia e di storia naturale (astronomia, geografia, zoologia), di filosofia teorica e pratica, di etica, di logica, soprattutto di retorica e politica. Benché fosse rimasto incompiuto, fu un successo immediato, a giudicare dai numerosi manoscritti che lo tramandano. Resta quello il libro più famoso di Brunetto, autore di opere di genere diverso, nonché divulgatore e traduttore delle orazioni di Cicerone e in parte del trattato De inventione, volgarizzato nella cosiddetta Rettorica, che lo stesso Brunetto disse di aver compiuto, sempre in Francia, su richiesta di un amico «molto ricco» desideroso di apprendere l’arte oratoria.
Certamente il suo apporto maggiore fu dato alla prosa, ma gli si devono anche due poemetti, il Tesoretto e il molto più breve Favolello, un poemetto sull’amicizia, solitamente tramandati insieme. Ora il Tesoretto viene proposto dall’editore Carocci per le cure e il commento di Giorgio Inglese. Il quale rende omaggio al Brunetto Latini politico come a «una delle menti direttive, certo la più attrezzata ideologicamente, del Comune fiorentino nella seconda metà del Duecento», sottolineando nello scrittore lo «sperimentatore a largo raggio del “sistema dei generi”», tra cui figura anche una canzonetta, S’eo sono distretto innamoratamente.
Nel progetto iniziale, il Tesoretto doveva essere una composizione mista di distici di settenari a rima baciata e di passi in prosa nei punti più complessi e didascalici: il disegno non fu però portato a termine, forse perché premeva l’elaborazione (probabilmente contemporanea) del Tresor. Dedicato a un «valente segnore» che potrebbe essere Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, il poemetto non va considerato un compendio in versi dell’opera maggiore in prosa: lo scarto è dato dall’inquadramento della stessa materia in una struttura narrativa visionario-allegorica che anticipa l’impianto dantesco della Commedia, dove si trovano non pochi echi dell’operetta brunettiana, come ha mostrato Stefano Carrai in un’edizione einaudiana di qualche anno fa.
In quasi tremila versi, Brunetto mette in scena un pellegrino, suo alter ego, che dopo la sconfitta di Montaperti si perde in una foresta dove incontra la personificazione della Natura, da cui viene istruito brevemente sulla storia della creazione e su nozioni cosmogonico-geografiche; il viaggio prosegue nel Regno delle virtù e dei vizi, con una puntata nel Giardino del Piacere, dove il nostro chiede aiuto a Ovidio per liberarsi degli strali amorosi. Il successivo passaggio, del tutto «autosufficiente» (Inglese), è affidato a una sorta di lettera sulla Penitenza con assoluzione del «mondanetto» (per sua stessa ammissione) da parte di un frate di Montpellier e salita verso l’Olimpo in cui il pellegrino incontra Tolomeo; e qui il testo si interrompe.
Sin dalle prime battute, l’autore mette in rilievo il suo debito culturale nei confronti di «Tulio romano/ che fu in dir sovrano», del quale, come si è detto, il Latini fu primo volgarizzatore. E Inglese richiama la curiosa equazione, secondo cui «quello che è Virgilio per Dante, è Cicerone per Brunetto», sottolineandone «l’esplicita integrazione della letteratura nel dominio della retorica». È una lettura lieve e a tratti divertente, quella del Tesoretto, una lettura opportunamente aiutata, a beneficio anche di un fruitore non specialistico, dal commento di Inglese, teso a chiarire i dubbi storici oltre agli intrecci semantici e lessicali.
Forte di questa guida, il lettore d’oggi potrà gustarsi qualche passo particolarmente utile anche in chiave attualizzante, come quando il «viator» tratta i vizi, tutti vizi eterni che per gioco potremmo attribuire a questa o a quella figura pubblica dei nostri giorni. Per esempio, chi sarebbe il tipo che gioca oggi «al più grosso» non mostrando «vilezza/ ma lieta gagliardezza»? E quanti sono quelli che si abbandonano «per astio di persona/ e per sua vanagloria» a «dicer villania». E chissà che non possa ancora tornare utile, in caso di torto subìto, il consiglio di evitare la violenza e «rinfrenar la mattezza/ con dolci motti e piani,/ che venir ale mani». E non deve meravigliare che il codice medievale, sia pure illustrato da un «mondanetto», raccomandi di tenersi alla larga dalle cattive compagnie: da «chi dispende in bordello/ e va perdendo ‘l giorno/ in femine d’intorno»; o da «chi dispende in taverna/ e chi per ghiottornia/ si getta in beveria»; da quelli che, esagerando, «comperan capone,/ pernice e grosso pesce: / lo spender nogl’incresce». Stupisce, semmai, che già a quel tempo fosse diffuso il consumismo.