Avvenire, 26 novembre 2024
Nozick e la necessità di uno Stato
La vicenda è ricordata in Anarchia. Passato e presente di un’utopia, il singolare libro di Rudolf Krämer-Badoni tradotto in italiano dall’editore Bietti nel 1972. Niederwald, 28 settembre del 1883: l’idea era quella di far saltare in aria l’imperatore Guglielmo e il re di Sassonia con le rispettive famiglie. L’attentato però non riesce perché la dinamite non esplode probabilmente a causa della pioggia. Catturato per una delazione qualche mese dopo e condannato a morte, il tipografo August Reinsdorf, capo degli attentatori, così scriveva ai genitori il giorno prima dell’esecuzione: «Quale fine! Chiunque, però, sia reazionario che progressista, sia liberale che conservatore, potrà odiare l’anarchico Reinsdorf, potrà condannare la sua azione, magari rallegrarsi della sua morte, ma non potrà, nessuno, contestargli la palma dell’abnegazione e della fede disinteressate, della massima tenacia a dispetto di mille e mille delusioni. E sia questo il vostro conforto». Emergono da queste parole alcuni tratti che hanno da sempre caratterizzato il variegato e anche contraddittorio movimento anarchico, che metteva l’uno accanto all’altro senza alcuna gerarchia lo sconosciuto Reinsdorf, ma anche i notissimi e carismatici Proudhon, Bakunin, Kropotkin: scarso senso della realtà, disposizione alla violenza, non senza ferocia e crudeltà, ma anche nobiltà d’aspirazioni e senso di sacrificio. Niente di tutto ciò, seppure in implicito rapporto con questa tradizione di pensiero, permane nel concetto di anarchia così come ci viene restituito da Robert Nozick, uno dei filosofi politici più originali del Novecento, nel fortunato volume apparso per la prima volta nel 1974, Anarchia, stato e utopia (pagine 448, euro 27,00), oggi riproposto da il Saggiatore per la traduzione di Giampaolo Ferranti.
Dico il liberale individualista Nozick: che proprio in quegli anni Settanta si contese il palcoscenico del dibattito mondiale col socialdemocratico John Rawls, di cui fu il più autorevole critico, che nel 1971 aveva pubblicato Una teoria della giustizia. Nozick non ha dubbi: la domanda fondamentale della filosofia politica, quella che precede qualsiasi altro interrogativo su come lo stato debba essere organizzato, è semplicemente questa: «Se debba mai esistere uno stato». Ecco perché ogni discorso su questa peculiare disciplina non può non prendere le mosse da una riflessione circostanziata sul concetto di anarchia, che è dello stato la «principale alternativa teorica»: ammetterla significherebbe dichiarare come conclusa la possibilità dell’esistenza stessa della filosofia politica. Ecco, allora, il punto: «Se lo stato non esistesse, sarebbe necessario inventarlo? Ce ne sarebbe bisogno e lo dovremmo inventare?». Questa condizione di anarchia (che è poi il tradizionale «stato di natura» dei giusnaturalisti) non coincide per Nozick con un’hobbesiana guerra di tutti contro tutti, ma viene ipotizzata – proprio in vista delle mete da conseguire – come «una situazione di non stato in cui gli individui in generale soddisfano vincoli morali e si comportano come dovrebbero». Se ci si deve chiedere quale sia l’ipotesi migliore per la convivenza umana, se insomma si vuole dimostrare che sia più auspicabile avere «lo stato anziché l’anarchia», allora è bene riflettere, per un’eventuale alternativa alla società civile e politica, sul migliore stato di natura «che si potrebbe ragionevolmente sperare». Con questa mossa Nozick avvia il suo articolato e iper-analitico discorso che lo porterà, capitolo dopo capitolo, a occuparsi, tra molto altro, di vincoli morali e stato, proibizione, risarcimento e rischio, di un’idea di stato come stato minimo quale approdo d’un percorso individuale senza violazioni palesi dei diritti di nessuno e, infine, dell’idea d’utopia come la più formidabile delle obiezioni teoriche al proprio discorso. Già, l’utopia: con le sue «alte speranze» e i suoi smisurati sogni. Sentite qua: «Non è giustificabile nessuno stato più esteso dello stato minimo. Ma l’idea, o l’ideale, dello stato minimo non manca forse di attrattiva? Può far vibrare il cuore o ispirare la gente alla lotta o al sacrificio? Chi sarebbe disposto a salire sulle barricate sotto la sua bandiera?». Risulta infatti chiaro – e Nozick ne è consapevole – che, qualsiasi siano le sue virtù, «lo stato minimo non è utopia».
Hegel – e con lui il suo erede maggiore Marx – fondava il suo storicismo su una convinzione irrefutabile: «Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale». I suoi nemici, i razionalisti analitici come Nozick, hanno sempre ottimisticamente pensato che tutto ciò che è razionale sia, per ciò stesso, realizzabile col metodo della persuasione. Due concezioni antipodiche, ma entrambe impotenti davanti all’imperscrutabile e spigolosa opacità della realtà. La mia impressione è che la filosofia politica, già a partire dalla Repubblica del sommo Platone, valga al suo meglio (oh Borges!) come speciale declinazione della letteratura fantastica.