Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  novembre 26 Martedì calendario

In morte di Emilio Battisti

Era convinto che avviare un confronto fosse “lo strumento migliore per tentare di far crescere una cultura di progetto che non perda completamente i riferimenti al contesto milanese”. Il rischio, scriveva, era quello di trasformare la città in un luogo “straniante e al tempo stesso omologato”, simile a tutte le metropoli del mondo. E per questo da anni apriva lo studio in viale Caldara a dibattiti sui temi della città, da Expo ai Navigli, della Biblioteca Beic, che criticò duramente, ai nuovi edifici firmati dalle archistar. Gli inviti cominciavano sempre con un caloroso “Amiche e amici carissimi”, l’appuntamento era sempre alle 18.30, la sala il più delle volte molto affollata che si parlasse di torri o paesaggio, pittura, sua seconda passione, o design.
Gli ultimi inviti sono partiti la scorsa primavera, prima che la malattia peggiorasse ed Emilio Battisti, architetto, scrittore e pittore, si trovasse costretto a ritirarsi lentamente dalla scena pubblica. Senza però mai mollare. Lunedì scorso lo aspettavano all’Ordine degli architetti, dove era consigliare da anni, e per non mancare aveva chiesto un collegamento da remoto. Era fatto così. Ieri è mancato, lasciando un grande dolore dietro di sé, per la famiglia, ma anche per tutta quella comunità che negli anni si era ritrovata alle sue serate.
«Il suo studio era una casa della Cultura bis – racconta Giancarlo Consonni -. Seguendo le sue passioni dava spazio a numerosi voci, ospitava mostre sue e di altri artisti, era sempre interessato ai temi dell’architettura che viveva con grande impegno civile. Era un burbero, con un carattere non sempre facile, ma sotto sotto era una persona molto generosa».
«Il suo studio era un luogo di incontro e di costruzione di idee – ricorda l’architetto Maria Grazia Folli -. È stato un amico per tutta la vita, un docente molto bravo, un professionista attento, impegnato, che ha saputo prendere posizioni anche coraggiose».
Nato nel 1938 a Napoli da genitori piemontesi, cresciuto a Novara, dopo la laurea al Politecnico di Milano nel 1964 comincia a muovere i primi passi da architetto nello studio Gregotti-Meneghetti-Stoppino, intraprendendo in parallelo la carriera universitaria. Negli anni Settanta diventa docente ordinario di Composizione architettonica al Politecnico, dedicandosi con passione all’insegnamento. La sua attività professionale si è indirizzata soprattutto verso i concorsi – ne ha fatti a decine, anche all’estero – con poche realizzazioni fra cui, a Milano, l’edificio di via San Raffaele a chiusura prospettica della Galleria Vittorio Emanuele, verso la Rinascente.
Nella sua amata Filicudi, dove era solito trascorrere le lunghe estati, aveva cominciato a dipingere. «Ho imparato da solo, provando e riprovando – scrisse lui stesso sul sito internet del suo studio – iniziando con semplici nature morte e scenari domestici della casa di vacanze. Constatando di essere molto attratto dalla figura umana, e non avendo altri soggetti a disposizione, ho iniziato a dipingere degli autoritratti». L’Ordine degli Architetti di Milano ricorda «con affetto e gratitudine il suo impegno per la professione e il suo contributo al dibattito architettonico sulla città. Il suo esempio continuerà a ispirare le nuove generazioni di architetti nell’affrontare le sfide della progettazione contemporanea con sguardo critico e appassionato».