la Repubblica, 26 novembre 2024
Le foto del D-day create dall’Ai
Ritrovate! Un colpo di scena formidabile: ecco le fotografie perdute di Robert Capa, quelle del D-Day. Pareva ne fossero sopravvissute solo undici a quel presunto, leggendario disastro nel laboratorio di sviluppo, invece eccole qui: c’è perfino il provino a contatto di tutto il rullino. A Phillip Toledano, fotografo di New York, è bastato commissionarle, con qualche supervisione, all’intelligenza artificiale. È stato facile: «Le ho fatte sul mio cellulare. Quando ti viene un’idea, puoi coglierla al volo ovunque tu sia».We Are at War è un progetto appena realizzato da Toledano per il festival Planches Contact di Deauville, curato da Laura Serani proprio sulle spiagge della Normandia. Adesso è anche un curioso libro-scatola, che contiene i finti provini, una finta copia del Daily News, finti telegrammi eccetera. Una provocazione d’artista che sta creando parecchi malumori nel mondo del fotogiornalismo. «L’ho mostrato agli amici dell’agenzia VII: erano sconcertati». Ironico, quasi beffardo, Toledano si gode l’effetto fra un sidro e una crêpe al café dei Franciscaines, splendido centro culturale della cittadina normanna.
Dunque, è la fine della fotografia come la conosciamo. Dobbiamo sentirci bene?
«La storia conosce più inizi che conclusioni. Non credo sia la fine della fotografia, ma solo l’inizio di un modo nuovo di produrre immagini. La fotografia continuerà a esistere, ma assieme a qualcosa d’altro».
La fotografia forse sì, ma la fiducia nella fotografia probabilmente no…
«Certo, l’idea della fotografia come verità è perduta per sempre».
E questa è una cosa buona, no? Siamo stati fin troppo ingannati dalla supposta verità delle fotografie….
«Be’, non l’avevo ancora vista sotto questo aspetto… Certo, abbiamo riposto troppa fiducia nella veridicità intrinseca delle fotografie, ma ora è la verità stessa che sta diventando elastica. Credo che sia ora di sforzarci per recuperare un’altra idea del rapporto fra le immagini e la verità, un po’ meno ingenua. Però come società abbiamo ancora bisogno di affermazioni e informazioni vere, o per lo meno vicine alla verità».
O magari abbiamo solo bisogno di credere ai nostri occhi…
«Come funzionavano le cose prima della fotografia? Come funzionava l’informazione, quale idea avevamo sulle cose che non ci era possibile vedere di persona, ma solo in immagine? Come faceva l’opinione pubblica a raggiungere un ragionevole consenso condiviso sul fatto che alcune cose fossero vere?».
Be’, c’erano istituzioni apposite. Fondate sull’autorevolezza, sull’ufficialità… Un notaio certifica che questa è casa mia e non tua… I romani la chiamavano fides publica…
«Sì, ma restiamo sulle affermazioni visuali. Credevi a quello che potevi accertare di persona, mentre avevi più diffidenza per quello che ti veniva raccontato. Perché non potremmo avere un rapporto del genere, di legittima cautela, anche con le immagini?».
Lei è stato fotografo, tuttavia. Non si fida più delle sue fotografie?
«Ho fotografato per 40 anni. Due anni fa ho preso in mano l’intelligenza artificiale. Mi considero un artista concettuale e mi sento libero di usare lo strumento più adeguato al mio progetto. E lo strumento più adeguato,se vuoi parlare della morte della verità in fotografia, è l’IA, che sta uccidendo la fotografia».
Pensa al suo lavoro come a un antidoto, un vaccino contro la credulità?
«Il compito dell’artista è essere curioso. Mi interessa solo raccontare come, da qualche tempo, in America la verità e i fatti siano diventati una semplice scelta, mentre prima era necessario raggiungere almeno un certo grado di consenso attorno ai fatti. L’IA crea versioni della realtà che pretendono di essere tutte ugualmente “reali”, alcune addirittura sembrano esserlo di più».
Messa così, è come se stessimo tornando al tempo in cui grandi pittori dipingevano enormi quadri di battaglie mostrando cose che nonerano avvenute, o almeno non così.
«Esattamente. Se la fotografia non esistesse, come ci scambieremmo oggi informazioni visuali? Se non creando immagini di cose come pensiamo possano essere, o potrebbero essere?».
Ma la fotografia è esistita, e ha cambiato tutto, da allora abbiamo cominciato a pensare che quel che ci mostra è o almeno è stato reale. Non si torna più indietro…
«Non possiamo negare che il nostro rapporto con le immagini sia cambiato con l’avvento della fotografia, ma adesso sta cambiando di nuovo, profondamente, io cerco di capire come. E affermo che la storia della fotografia come verità è finita».
Ma la gente lo sa che è finita?
«Crediamo ancora che quel che si vede in una fotografia sia vero. Forse no, non lo sanno ancora. Ma devono saperlo fotografi, giornalisti e uomini di potere. Forse siamo ancora in una specie di crepuscolo, ma tempo cinque o dieci anni tutti ci renderemo conto che la fotografia come prova del vero è morta».
Molti invocano una specie di polizia visuale che separi nettamente la fotografia dall’IA… Lei crede in una politica di etichette che mettano in guardia i lettori?
«Penso semplicemente che non possa funzionare. Tu etichetti una immagine come prodotta da IA, ma quella comincia a essere prelevata, riprodotta, condivisa, perdendo per strada il tag. Le immagini sfuggono sempre al guinzaglio».
C’è chi sta usando le immagini di IA per visualizzare, sulla base di testimonianze, delitti e ingiustizie di cui non abbiamo immagini. Lo ritiene utile? Legittimo eticamente?
«È esattamente la mia idea: è meraviglioso poter rendere visibili eventi ai quali sia impossibile per i fotogiornalisti accedere. L’IA è incredibilmente flessibile, può essere come un sogno, o una poesia. Con l’IA puoi rovesciare l’ordine delle cose, ma anche entrare in luoghi inaccessibili».
Ma come facciamo a distinguere? Qual è la vera difesa contro la manipolazione?
«Devi essere sempre consapevole che qualsiasi immagine tu veda può non essere affidabile come testimonianza del vero. Dobbiamo imparare a stare sempre molto attenti quando in un’immagine c’è qualcosa di strano, di improbabile, di ridicolo».
Nel suo Another America, una controstoria inverosimile degli Usa anni Cinquanta, le immagini sono chiaramente identificabili come sintetiche e non «reali». Mentre col progetto su Robert Capa, no, sembrano autentiche.
«Vero, in We Are at War non ci sono indizi. A meno che tu non sia un profondo conoscitore della storia della Seconda guerra mondiale, non riesci a trovare elementi sospetti, le divise sembrano giuste, le armi sono giuste…».
In questo modo, lei sta dalla parte del problema o della soluzione?
«(Ride) Probabilmente entrambe. Il punto del mio lavoro è mostrare alla gente quanto possano essere convincenti le immagini sintetiche, l’operazione è esplicita, ma mi rendo conto che le immagini hanno una loro vita e che anche queste potrebbero sfuggire alle precauzioni che ho adottato per spiegarle, cioè il testo che le accompagna, e fluttuare fuori contesto».
Perché ha scelto Capa?
«Quel mito delle sue immagini fatte ma perdute, che sia vero o no, ha creato un vuoto nella storia della fotografia, che tanti hanno sperato si potesse riempire. Io l’ho fatto».
Lo ha definito «surrealismo storico».
«Vorrei che fosse chiara la domanda che pone il mio lavoro: se possiamo rendere così convincente un passato immaginario, cosa è possibile fare con il presente?».
Potrebbe averlo detto Orwell. Nel suo 1984 c’erano istituzioni appositamente delegate a riscrivere il passato.
«Be’, adesso ne abbiamo una in America, si chiama Donald Trump. Una delle cose che ora probabilmente farò è visualizzare grazie alla IA l’America che ha in mente Trump, il suo mondo scuro e inquietante».