La Stampa, 25 novembre 2024
Giorgio Montefoschi su Roma e sulla scrittura
Due aggettivi accompagnano da mezzo secolo i libri di Giorgio Montefoschi, sbucando fuori in ogni intervista e in quasi tutte le recensioni. Il primo è «romano», il secondo è «borghese». Non è un caso. Anche nel suo nuovo romanzo, Un’indicibile tenerezza (La Nave di Teseo, pp. 320, euro 20), tra i personaggi e gli ambienti si avverte la stessa consonanza. Pietro, il protagonista, ha 66 anni, vive a Roma, è uno scrittore che ha deciso inaspettatamente di non pubblicare un libro costatogli due anni di lavoro, nonostante i tentativi di Mario, un suo amico editore, che per starnarlo gli affianca una giovane editor.Da qui prende avvio il romanzo di Montefoschi, che di questa triangolazione prova a indagare l’imperscrutabilità dei sentimenti. Sullo sfondo, ma neanche troppo, c’è Roma: via dei Gracchi, i negozi di via dei Giubbonari, il Ghetto. E, sin dalle prime righe, i Parioli, dove Montefoschi è nato e cresciuto. «Qui, una volta, gli uffici quasi non esistevano – racconta lo scrittore a La Stampa – Ora ci sono studi di notai, medici, avvocati».Prima, invece, chi ci viveva?«Più che altro, c’era una borghesia colta che spendeva le proprie ricchezze in modo misurato. Oggi sono perlopiù signore che vanno a comprare i cornetti parcheggiando il suv in doppia fila. I superstiti ci sono, certo, ma sono così pochi che si riconoscono subito».Come si è trovato a raccontare questo cambiamento?«I miei primi romanzi “romani” risalgono alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta: quando uscirono, fui identificato come il paladino di una realtà sociale che già allora si stava scollando. Ma, a dire il vero, io non ho fatto altro che provare a indagarne i limiti: perché la perdita dei cosiddetti valori borghesi è cominciata proprio allora».Quei libri piacquero molto a Moravia.«La sua amicizia è stata preziosa. A Roma tutti gli davano del tu, anche se l’avevano visto una volta sola. Noi, che ci siamo a lungo frequentati, sino alla fine ci siamo dati del lei. Alberto diceva sempre cose intelligenti e spesso spiazzanti».Sosteneva che lei descrivesse la borghesia «con caratteri precisi, consciamente e inconsciamente». Gli arredi e gli oggetti di cui è pieno il romanzo servono anche a questo?«È Flaubert ad averci insegnato che le cose hanno un’anima e che per questo devono essere parlanti. A una recente presentazione, c’è chi ha notato come nei miei romanzi venissero descritti i menu. Avrei voluto rispondergli: “Ma scusate, voi non mangiate?”. Io mica descrivo pranzi col boeuf à la mode di Proust e la salsa di carote fredda per ricevere l’ambasciatore di Norpois. Al massimo ci sono due spaghetti e la pasta al gratin. Ed è così anche per i luoghi: in questi cinquant’anni, non ho mai descritto case sontuose, ma posti dove possono vivere tutti».Anche le signore dei Parioli col suv?«Anche loro, certo, perché alla fine c’è sempre un allineamento, sebbene ormai non possano più andare in giro con le pellicce perché se no gli sputano addosso».Un’indicibile tenerezza è quella che a un certo punto i protagonisti del suo romanzo avvertono nel crepuscolo di un giorno di fine settembre. Come si raccontano i sentimenti?«Per sottrazione. Tutto ciò che viene tolto è molto più incisivo di ciò che viene scritto, anche con esattezza. Se avessi parlato, chessò, di “un’indicibile e soffusa tenerezza” alla fine di un capitolo sulla nascita di un bambino sarebbe stato inutile: non avrei aggiunto nulla».Poco prima, nel romanzo, scrive che i maestri di tennis «badano al sodo: considerano poco, o di scarso interesse – e, in certi casi, è una fortuna – le vicende private dei loro allievi».«Quel maestro, Colombini, è una summa di tutti quelli che ho avuto da quando avevo dodici anni. Uno a cui, se confessi di sentirti male, ti risponde chiedendoti se hai trovato i biglietti per gli Internazionali d’Italia. Mi serviva come contraltare alle fatiche psicologiche e sentimentali del protagonista: un piccolo trucco per riportare la vicenda sui binari della quotidianità».Questo distacco serve anche a uno scrittore?«In un certo senso sì: mai partecipare troppo e soprattutto mai identificarsi troppo. Per dar vita a un mondo in cui ci si possa riconoscere, ho sempre provato a lasciare al lettore un margine non definito, in modo che potesse riempirlo con la sua complicità e immaginazione».Scrive da cinquant’anni, questo è il suo ventesimo romanzo. Che rapporto ha con il tempo?«Conflittuale. Il fatto che trascorra mi mette ansia. Nonostante sia un aspirante cristiano, il mio rapporto con la morte non l’ho risolto. Vorrei vivere per sempre».La ripetitività, nella narrativa, serve anche a esorcizzare quest’angoscia?«La ripetitività registra la mutazione impercettibile che accompagna la nostra vita. Un pittore che amo molto, Claude Monet, ha dipinto trenta volte la facciata della cattedrale di Rouen e duecento le ninfee. Ecco: se un genio come lui ha ritratto le stesse cose così spesso, anch’io posso fare venti romanzi tutti uguali senza troppe preoccupazioni».