Il Post, 9 maggio 2024
Diego, e gli altri fantasmi
A un certo punto lo sogno.
Mi appare minuscolo, seduto sul sedile del passeggero accanto al tassista. Quasi bambino, per metà invisibile, sfuggente. D’altra parte è sempre stato un nanerottolo. Baricentro basso, misirizzi, dondolio, funambolo. Vedo i riccioli un po’ unti: da piccolo lo chiamavano Pelusa e nei filmati lo riconosci sempre, con il testone riccioluto che oscilla in mezzo a una miriade di giocatori, sempre a dibattersi e divincolarsi come un Laocoonte, solo per fare ciò che sapeva fare, ossia la magia, che a un tratto emerge come un coniglio dal cilindro: il pallone vola, lui consegna tutto il suo talento a un pezzo di cuoio inanimato e lo fa proprio per un pugno di secondi, finché deposto sul fondo della rete non torna inerte, e la magia contagia il pubblico nell’esultanza. Vedo la mano sinistra – quella mano – che gesticola verso il tassista. Parlano stretto e non capisco. Il castigliano argentino è comunque diverso da quello a cui sono vagamente abituato. Ma il punto non è capire. Il punto è che di notte, in piena Buenos Aires, la capitale – stando a Le Corbusier – di un impero immaginario, mi appare il dio di una religione altrettanto immaginaria (o quasi, visto che a Rosario nel 1998 è stata fondata la Iglesia maradoniana, culto di D10S – come viene scritto – con tanto di scansione cronologica, «prima y después Diego», e comandamenti del tipo «Diffondere i miracoli di Diego per tutto l’universo»).
Non ci sarebbe stato alcun bisogno di consacrare un amore collettivo tanto evidente. Basta passeggiare per la città e lasciarsi portare dalle immagini. Manifesti, litografie, stencil, riviste, decalcomanie, magneti, tazze, pupazzi, T-shirt, graffiti. Da ogni parte spunta il viso plebeo e stravolto, sempre gioioso e sempre accigliato, di Diego Armando Maradona. La città trabocca di immagini dedicate al suo figlio più universalmente noto. Sì, più di quell’altro, che qui non nominerò mai e che mi appare su un cartello stradale appena faccio due passi: «J.L.B. Contra Mano», come se fosse sempre tra i piedi, sempre incombente, cieco e sovrano e superiore a tutti, tranne che a Witold Gombrowicz, l’unico che ebbe il coraggio di gridare in faccia agli scrittori argentini: «Muchachos, uccidete Borges!» (ecco l’ho nominato, maledetto). A ogni modo Maradona si è ucciso da solo, con il cibo e la droga e l’incuria e la solitudine, morto in un letto collocato incongruamente in cucina perché non era in grado di fare le scale, in una situazione triste, con accanto chissà perché, analogamente a Marco Pantani, la biografia del Che Guevara (che invece a Buenos Aires sui muri non appare mai: troppo cubano y distante y comunista y final).
Eppure Maradona vive. E vive moltissimo nelle contraddizioni innumerevoli di una città e di un paese. Arrivato in un’Argentina travolta da Javier Milei, presidente più liberista del più sfrenato liberista, più capitalista del peggiore dei capitalisti, mi ritrovo a vagare immerso nella torrida estate che di lì a tre giorni una notte di vento, tutto a un tratto, spazzerà via come una nuvola. In uno dei tanti baretti che costellano un quartiere ancora intatto come Almagro – che, a differenza di Palermo, non è ancora consegnato a una gentrificazione selvaggia – chiacchiero con la grande protagonista di un capolavoro come Garage Olimpo di Marco Bechis, un film in fondo già adiacente a La zona d’interesse. Antonella Costa – di origine cilena, nata in Italia e ora stabilmente argentina – mi racconta di essere passata davanti alla Casa Rosada per i funerali di Diego, che – come tutta la sua vita – da tragedia si sono trasformati in farsa, con una serie di tafferugli in piazza. «Sì, ma non ho resistito, era un momento troppo emozionante».
Altro che Evita. Eppure Antonella è preoccupatissima per la situazione e il futuro dell’università. Ai media italiani (e mondiali), tra la motosega e l’acconciatura, Javier Milei risulta pittoresco, nei modi e nel linguaggio, come quando definisce il parlamento un «nido di ratos» oppure fa clonare il suo compianto cane prediletto. Si ride meno quando i professori ti raccontano dello stipendio tagliato, del posto perso, dei fondi andati. O del caso dell’attivista picchiata e abusata in casa con i responsabili che oscenamente lasciano lo slogan di Milei sul muro – VLLC, ossia «Viva la libertad, carajo!» – e lui ancora più oscenamente non sente il bisogno di prendere le distanze. Non una parola. Nunca más, recita lo slogan opposto, eppure accade.
Alla Boca, la zona dove arrivarono gli immigrati italiani e costruirono le celebri baracche di lamiera tutte colorate, fatte di grazia e miseria, si legge su un muro: «La Boca sabe que Dieguito votaria a Sergio Massa». Avrebbe davvero votato il candidato conservatore peronista che ha perso contro Milei? Chissà. Diego ne aveva per tutti. Di volta in volta sostenitore di Menem o di Chávez, antiamericano e pro-Obama, misticheggiante quando segnava di mano e hater di Giovanni Paolo II.
Proprio al Caminito, la strada iperturistica dove si trovano mille immagini di Diego con l’ostensione della Coppa del Mondo (spesso affiancato da Messi, duplicazione inevitabile: stesso baricentro basso, stessa imprendibilità, ma tutto più quieto e umano, come se il figlio probo fosse arrivato tardi: gracile e irresistibile come il padre, meno fulgido e meno maledetto), lo trovo effigiato su una maglietta con un berretto castrista e un sigaro cubano e un tatuaggio guevarista, pur essendo in verità povero di idee e ricco di ben altro.
Qui raccomandano di non allontanarsi a piedi dalla zona turistica. Decido di fregarmene, non tanto per coraggio, quanto perché c’è una coppia di turisti anzianotti che si avventura e allora penso che nel caso sceglieranno loro come bersaglio, di gran lunga meno atletici. È l’ultimo sobborgo povero della parte centrale di Buenos Aires e in effetti è desolato. Maradona qui ha giocato per diversi anni, nel Boca Juniors, dopo un trasferimento traumatico dall’Argentinos, squadra in cui era già diventato sé stesso. Nell’aneddotica sterminata c’è lo struggente ricordo dell’amichevole giocata tra le due squadre per celebrare il passaggio, in cui l’allenatore dell’Argentinos non trovò la forza di guardare il pupillo giocare il secondo tempo con la nuova camiseta, e si allontanò, inseguito dal giovane Diego disperato. Aveva già fatto mirabilie e non a caso Osvaldo Soriano, in una esemplare testimonianza, scrisse – ebbene sì – a Giovanni Arpino: «Mi raccontano gli amici che in un piccolo club di Buenos Aires, l’Argentinos Juniors, si trova la salvezza del Torino. Si chiama Diego Armando Maradona, ha diciotto anni ed è, stando al parere dei giornalisti e dei miei stessi amici, il miglior giocatore (sebbene sia bassetto) degli ultimi trent’anni. Fa due goal per partita (la sua squadra fa pena ma lui è il migliore), ed è già nella selezione nazionale. Certo tutte le grandi squadre, e il Barcellona, lo vogliono comprare; costa, credo, cinque milioni di dollari. Se il Torino possiede questa cifra di denaro è salvo. Dicono che accanto a lui Sivori è un energumeno. Dopo non dicano che non li ho avvertiti. Un forte abbraccio».
Cinque milioni di dollari, e poi molti di più, e poi le stelle, e poi la rovina. Un lungo arco con al termine il degrado fisico e intellettuale, le cause con la moglie, le paternità improbabili con donne che chiedono di riesumarne la salma per il test del Dna. Era partito dalla favela di Villa Fiorito. Otto fratelli, più i genitori: tre stanze. Niente acqua corrente. Il primo pallone a tre anni (l’agiografia vuole che ci dorma e non si può non credere all’agiografia, perché appunto le vite dei santi sono vite di santi). L’amico di sempre, centravanti, che si infortuna, con le due parabole che si separano e El Goyo finisce a fare il muratore a Villa Fiorito con sei figli sul groppone. Il mito delle «cebollitas», come viene chiamata la sua prima squadra, che vincono centotrentasei (136) partite di seguito. Esordio a 15 anni e subito un tunnel al difensore avversario. Un altro giocatore importante cerca di ridimensionarlo prima di una partita e lui segna quattro gol: ridimensiona questo. La prima Mercedes, in giro per Buenos Aires, quando giocava nel Boca.
E poi la leggenda.
In una vita, tutta l’Argentina al contrario: dalla ricchezza degli anni Cinquanta postbellici fino alla crisi spaventosa d’oggi. Lui che dal nulla diventa un re viziato e il paese dalle tante risorse che precipita sempre di più, attraverso la dittatura e i governi incerti successivi e ora l’avvento di questo uomo aggressivo con i favoriti folti che a scuola chiamavano El loco (giocava in porta, tra l’altro) e che una psicanalista di Buenos Aires ha definito davvero pazzo. Pazzo di rabbia, e quindi affascinante, anche per i giovani.
Nonostante i suoi tagli, l’inflazione è ancora altissima. Girare per Buenos Aires dopo aver cambiato i soldi significa avere la sensazione di avere svaligiato una banca. Parlo con un ricercatore simpatico e preparatissimo che guadagna 300 euro al mese e arrotonda scrivendo oroscopi. Tutte le persone che lavorano all’università sono costrette a fare altri due o tre lavoretti. Eppure la boria argentina è alta da sempre, sia verso gli altri paesi continentali che verso gli spagnoli colonizzatori. C’è un detto che recita: «Un argentino s’è suicidato, buttandosi giù dal suo ego» (quanto Maradona in questo). È un orgoglio fortissimo che nasce da stratificazioni di colonizzazioni, e che però viene mortificato di continuo: c’è tutta la miseria e la gloria. Buenos Aires svetta nel miracolo inventato di Puerto Madero – un quartiere che sembra Miami ricavato sull’argine friabile del fiume – e sprofonda di lì a pochissimo in una favela dove non ho il coraggio di andare a fare voyeurismo poveristico.
A Villa Fiorito c’è la casa natia di Diego, con una placca, ma a che serve? A girare per i quartieri – dal barrio bohémien San Telmo al barrio borghese di Recoleta, dalle enormi avenidas piene di auto alle stradine di Palermo – non manca mai un cassonetto con dentro, dalla testa ai piedi, un ragazzino che fruga alla ricerca di cartoni e lattine da riciclare, e se manca il ragazzino intorno resta una traccia-memento di ciarpame scagliato fuori. Su una strada borghesissima si trovano due bambini che, guardati da una mamma elegante, vendono ammennicoli fatti in casa nella parodia benestante di una bancarella e, letteralmente a due passi, un ragazzo macilento dall’aria un po’ fatta che giace con la testa su un sacchetto pieno di lattine. A un angolo trovo un altro uomo accasciato che dorme, questa volta ha accanto due bambine luride e tenerissime che chiedono l’elemosina. Mentre il padre ronfa, mi avvicino per allungare una banconota ma la guardano come se fosse un oggetto venuto da un altro pianeta. Il denaro è un’idea irrazionale, incontrollata, in un paese dove l’inflazione è esplosa al punto di cambiare il prezzo dei beni di mese in mese. Una radio, come racconta un articolo di Die Zeit, ha consigliato di investire in scatolette di tonno a lunga scadenza: il valore deve per forza salire.
E se il denaro diventa irreale, così succede alla politica. La vice di Milei è figlia di un ufficiale sospettato di collusione con i crimini della giunta militare e si ostina a smentire la cifra dei trentamila desaparecidos. C’è un continuo turpe tentativo di parificazione giustificatoria: c’erano i guerriglieri e lo Stato ha reagito. Vado al parco della memoria che si snoda lungo il Río de la Plata, l’estuario che separa Buenos Aires da Montevideo. L’acqua è torbidissima, fangosa, anche se i porteñi la nobilitano dicendo che ha il colore della pelle del leone. Il parco è desolato. Qualcuno fa jogging, un paio di coppie passeggiano. Pioviggina: è la «garua», come la chiamano qui, la pioggerellina sottile protagonista di un tango di Aníbal Troilo, evanescente proprio come il ricordo.
Passeggio lungo le opere d’arte che costellano il giardino e poi lungo il muro nero dove trovano posto i nomi, più o meno numerosi a seconda delle annate, degli scomparsi. Per un caso lo ripercorro al contrario, dagli ultimi caduti fino ai primissimi dissidenti, passando per le spaventose annate centrali: persone torturate, massacrate, narcotizzate, gettate proprio in questo fiume. All’inizio le buttavano troppo vicino alla costa: i corpi riaffioravano a riva. Quindi si sono spinti più in là con l’aereo. È ancora difficile crederci e impossibile non commuoversi. In un libro meraviglioso pubblicato dalla Nuova Frontiera, Il fiume senza sponde, Juan José Saer racconta che gli anni Settanta generarono anche una specie di sospensione della realtà. «Non voglio dire che le atrocità che commisero non fossero reali, ma che per alcuni anni la maggior parte degli argentini non riuscì a formarsi una rappresentazione esatta di sé. Poiché i vecchi miti rassicuranti erano svaniti, diventammo dei fantasmi: la tabula rasa che i militari avevano messo in pratica contagiò la vita immaginaria. La maggior parte della gente negava offesa tutto quello che stava succedendo, e anche quelli che lo sapevano o ci credevano, non tutti ma tanti, non sapevano come gestire quel sapere o quella certezza. Ancora oggi ci sono famiglie che per paura, o per chissà quali altre ragioni non ben definite, fingono che i loro desaparecidos vivano felici all’estero. Ecco una frase che si sentiva spesso: “Una cosa come questa non può succedere in Argentina”».
Oggi mi chiedo se questo muro possa servire, in quanto tangibile. Vuoi negare questa cosa? Dovrai buttarlo giù, abbatterlo. Dovrai concretamente cancellare una cosa. Certo, si dirà, l’hanno già fatto con le persone, perché non credere che possano farlo con un parchetto trascurato? Viene anche da chiedersi come sia stato possibile organizzare i Mondiali di calcio del 1978 in Argentina proprio in quel momento, quando il massacro era in corso. Tutto questo rafforzò la dittatura? In situazioni del genere, tra intransigenze e avalli, tra codici morali e indifferenza, i bilanci sono difficilissimi da fare. L’allenatore di allora, César Luis Menotti, disse, a proposito del caos che seguì alla finale dei Mondiali: «Se quella vittoria è servita a far evadere anche un solo montonero [l’organizzazione guerrigliera di sinistra attiva in quegli anni], mi basta per essere rimasto ad allenare la Selección». Forse si autoassolveva.
Maradona non venne convocato. Ci rimase malissimo, ma si riscattò vincendo il campionato juniores, e pare che ricevette una telefonata da Videla in persona. Prudente, connivente? Probabile. Poi sempre più vicino al popolo, pur con mille inconciliabilità. In un saggio del 2002, Fútbol y patria, il sociologo Pablo Alabarces delinea la sua figura come «il centro luminoso» del patriottismo del calcio argentino. Contro gli inglesi dopo la guerra delle Malvinas (guai a chiamarle Falkland, qui), soprattutto. Descamisado ricco e cocainomane. Un «dio sporco e peccatore», secondo Eduardo Galeano. Cialtrone celestiale, pueblo diventato sfarzoso e poi ripiombato nello squallore, anguilla di sé stesso (imprendibile per i difensori così come per la propria psiche). Nato in periferia e seppellito in periferia.
Prima di partire dall’Italia non so quante persone mi hanno detto: «Vedrai i tassisti porteñi quanto sono chiacchieroni!» Da lì in poi una serie di silenzi cosmici. Salgo ogni volta con un pimpante: «¡Hola! ¿Que tal?», per piombare in un mutismo assorto. Ascoltano la radio, ruminano, guardano dal finestrino, imprecano contro la lluvia e il traffico, ma hanno la lingua impastata, forse di mate e mestizia. Provo a chiedere di Milei e niente. Qualcuno storce il naso. Ogni tanto dicono che ci vuole tempo. Sono sorpresi dal mio interesse. Ma comunque: borbottii, bofonchi.
Finché.
Finché non ne trovo uno che compensa per tutti. Chiacchierone oltre ogni dire. Ma a sturare la ciarla non è la situazione politica, bensì il solito testolone riccioluto, perché transitiamo davanti a un murale che effigia Maradona intento a ballare con Raffaella Carrà. Da lì una risata e una serie di ciance sempre più emozionate sul senso del pibe. Non riusciamo più a trattenerci. Dalla toponomastica passiamo alla neurologia, dall’aneddotica all’infortunio, per finire sempre lì, al monologo del telecronista Victor Hugo Morales: poemetto, sintesi interstellare, pianto.
«Lo stadio di Napoli adesso è intitolato a lui! Prima era intitolato a un santo, non so se mi spiego!»
«Aveva neurorecettori diversi!»
«Entonces, te lo dico: la bombonera [lo stadio del Boca Juniors] letteralmente tremava».
«Era inconsapevole e iperconsapevole al tempo stesso!»
«Lo sai che Goikoetxea ha conservato le scarpette con cui gli ha spaccato le caviglie in una teca?»
«Hijo de puta!»
«Il senso sovrumano del pallone e del campo!»
«Il cognome non è italiano, è gallego!»
«Quel gol mai filmato in cui prima fa tutto il perimetro dell’area palleggiando con la testa!»
«Aveva un occhio per ogni riccio!»
«La frase di addio: il pallone non si sporca!»
«Furbizia! Gioco! Naturalezza!»
«C’è un uomo, Peter Shilton, che è ricordato solo per aver preso quei due gol!»
«Barrilete cósmico, da dove sei venuto, per lasciarti indietro così tanti inglesi!»
A un certo punto mi rendo conto che, mentre parlo con l’Unico Tassista Ciarliero, sto sfrontatamente, incautamente cercando – nel mio castigliano incerto – di imitare la cadenza di Maradona, sepolta nelle interviste all’uscita dello stadio durante i servizi della trasmissione 90° minuto, nella mia adolescenza anni Ottanta.
La voce è lì: per un attimo sono posseduto anch’io.