Domenicale, 24 novembre 2024
Contro la cucina stellata
Negli ultimi mesi è tornata alla ribalta la querelle: fine dining (meglio locali stellati o anche osti alla ricerca di un posto nella rossa) versus trattoria. Un dibattito, posto male, di contrapposizione, non si tratta di un incontro di calcio, bensì di due mondi con filosofie diverse, posizionamenti differenti, aspettative divergenti. Ciò non toglie che abbiano però un obiettivo comune, quale il successo per continuare ad esercitare l’attività.
Il ritorno all’attenzione sulla polemica, lo ha provocato la restituzione della stella Michelin del ristorante Giglio di Lucca: ponendo un dubbio se convenisse o meno il riconoscimento della guida francese, che assegna e toglie a suo piacimento, senza avere o meno, il consenso del ristoratore, salvo che un locale si astenga dall’inviare il modulo alla guida per venire giudicato.
I tre soci del Giglio (Benedetto Rullo, Lorenzo Stefanini e Stefano Terigi) hanno così giustificato il loro gesto (che vorrei ricordare in Francia ha avuto precedenti di chef molto più famosi): «la nostra scelta può essere travisata, vogliamo recuperare il vero spirito della ristorazione. Facciamo un passo indietro per farne due avanti in futuro. Vogliamo riavvicinarsi alla gente e ritrovare la nostra identità. Puntiamo ad accoglienza, autenticità e soprattutto libertà di espressione».
Questa analisi indica, in modo chiaro, come l’appartenenza alla Michelin ponga una gabbia di comportamenti che, anche un frequentatore seriale di ristoranti, può riscontrare, a cominciare da una perdita di identità di molti cuochi, in larga parte giovani, che seguono stili di cucina altrui, perdendo così «libertà di espressione».
Non solo, per inseguire appunto modelli stellati, ricorrono a materie prime di lusso ed esotiche, mise en place forzate, piatti scopiazzati da chef famosi, che non appartengono alla loro cultura, così come riti per loro inusuali.
In primis gli amuse bouche (guarda caso termine francese, nato ai tempi della nouvelle cuisine), che ho traduco in ex voto o santini, in apertura del pranzo o della cena.
Per chiarire, sono quei piccoli bocconi che i ristoratori di ogni latitudine, in cerca di un posto nel cielo stellato, si sentono in dovere di distribuire, con le relative indicazione da Gps: «cominciate da sinistra con la tartelletta, poi il cannoncino al ragù, quindi il tacos al salmerino, sashimi di ricciola, il cappuccino di pesce, cialda di mais e baccalà, infine a destra crocchette di verdure…». Il racconto stradale, in canto gregoriano, finisce con: «omaggio della cucina», per tranquillizzare il cliente.
In realtà il costo di questi passatempi, sempre più o meno uguali, non è per grazia ricevuta, trattasi pur sempre di un food cost che potrebbe essere eliminato, soprattutto quando viene giustificato il menu fisso (altra conseguenza della guida Rossa), come forma di abbattimento dei costi e di riduzione degli sprechi.
Il rito degli ex voto ormai fa parte del costume della nuova tavola ed è diventato per chi siede, per la prima volta, in un fine dining un vero e proprio souvenir.
Basta! basta con i «santini» (Antonio non me ne voglia, lui proprio non c’entra) con quelle costruzioni da lego, che confondono i sapori già al primo antipasto della serie di entrèe. E ancora basta con il menu fisso quando non preveda anche una carta libera, a parte. Non è una proposta democratica: il cliente ha il diritto di scelta e il dovere di pagare ciò che mangia e non ciò che gli viene imposto.
L’asserzione di un contenimento dei costi dello chef, attraverso la riduzione degli sprechi e scarti alimentari del menu fisso, non ha fondamento; ormai larga parte degli ingredienti arrivano già porzionati dalle società specializzate di distribuzione e, molte preparazioni pronte in sottovuoto.
«Il tutto pronto per l’uso», d’altro canto, ha creato agli chef una vera e propria dipendenza; così come gli ingredienti di provenienza esotica, hanno contaminato i menu; penalizzato il mercato locale e compromesso il rapporto con la terra, vera espressione di autenticità della cucina made in Italy.
Abbiamo assistito negli anni ad una omologazione dei menu, soprattutto da parte degli aspiranti al Paradiso delle stelle, con il ricorso a prodotti quali il gambero blu della Caledonia, il black code, il king crab, le acciughe del Cantabrico, il riccio delle Asturie, la carne Wagyu, la vaca vieja galiziana, la vaca vieja Rubia Gallega, il pollo di Bresse, il maialino spagnolo o di Segovia, l’alga Kombu, il daikon, il miso ecc.
Chi più o meno, di fronte all’invasione di nuovi prodotti, sempre più presenti nei piatti “creativi” di chef superstellati, protagonisti dei tanti show cooking, ha cercato di “fotocopiarli”, spesso rinunciando alla propria identità e autenticità.
La spirale dei costi è così cresciuta per la ristorazione, ma ancor più per gli aspiranti stellati che, tra l’altro, per essere al passo, hanno investito in locali di design, per offrire un’immagine adeguata al nuovo possibile status.
Come allora far fronte ai conti che non tornano? Soprattutto per molti ristoranti di fine dining, che non coprono il rosso di bilancio con le sole entrare dei clienti presenti, ogni giorno, nei tavoli elegantemente vestiti.
L’eccezione sono gli chef mediatici che riescono a diventare star del mondo dell’entertainment, sempre più imprenditori del catering, consulenti di locali altrui e di società di franchising, a cui offrono il proprio nome (divenuto un vero e proprio marchio), testimonial di grandi eventi promozionale aziendali e di campagne pubblicitarie e, nei tempi più recenti, protagonisti di seconde e terze aperture dei loro stessi ristoranti.
E gli altri, lo squadrone, che ogni giorno vede, come miraggio la stella, saranno in grado, con i soli incassi dei clienti, a continuare l’attività.
«L’alta cucina è altamente sfidante, roba da 5-6 campioni al massimo come l’America’s Cup – ha dichiarato Ferran Adrià – di recente all’edizione di Nutrire l’incontro, a Roma). A fronte di questo ristretto numero di cucine in grado di portare innovazione alla cultura gastronomica, un mestiere elitario, c’è il 99 per cento di cuochi e chef che mediaticamente si presentano come creativi, spesso trascurando la cucina di tradizione. Ma la ristorazione è soprattutto fare impresa e ai giovani consiglierei prima di essere creativi, bisogna saper fare i conti, guidare la sostenibilità economica del ristorante». Così è se mi piace!