Domenicale, 24 novembre 2024
Fossati fa la fenomenologia di Mina
Se potessimo porre a tutti gli italiani la semplice domanda circa chi sia la nostra più grande cantante la risposta sarebbe un immane, roboante urlo all’unisono di sole due sillabe, Mina. L’unità e la compattezza della risposta farebbero impallidire credo politico, affluenza alle urne, tifo calcistico e devozione religiosa, tutti aspetti sui quali noi, suoi compatrioti, siamo notoriamente divisi per irrefrenabile individualismo e mobilità di pensiero.
Stando così le cose, il passo successivo sarebbe lasciarsi diventare, lei Mina, monumento nazionale. Ma proprio qui nasce il paradosso: seppure oggetto di tanto amore e considerazione da parte di un popolo intero l’interessata schiva il colpo, vi si sottrae con eleganza ma con fermezza, non si lascia monumentalizzare. Se proprio vogliono il monumento lo facciano gli altri – i quali vogliono eccome! – lei non partecipa alla fabbrica dei suoi giubilei neppure per un giorno. Il mito, ci insegnano i greci – e semplifico io – nasce dall’assenza. Che però deve seguire a gesta memorabili...
1958. Dopo un decennio di canzoni in malinconica tonalità minore, che raccontano amori spezzati, abbandoni e treni che non torneranno, tutto secondo la fantasia bastonata degli autori, che interpretano il sentimento di un popolo umiliato da una guerra fallimentare di ferocia inaudita, arriva Mina. Solo lei a cambiare le cose? Certo no. Arrivano Mina, il rock’n’roll superballabile, le canzoni stralunate a singhiozzo, il 45 giri a microsolco, il boom economico, il frigorifero pagato a cambiali e tutto il repertorio del cinema-commedia in bianco e nero, anch’esso liberato dai toni scuri del neorealismo. La dolce vita non è per tutti ma la domenica al mare coi panini alla frittata preparati a casa sì. Le canzoni si fanno brevi, luminose e scattanti, sembrano scritte d’estate direttamente sul bagnasciuga. Stessa spiaggia stesso mare. Se vogliono dire qualcosa nessuno lo sa e in fondo poco importa intanto ognuno a casa se le biascica a modo suo. Gli autori quel poco devono dirlo tutto e subito. Agganciare il successo in due minuti e mezzo, il microsolco non fa sconti. Per loro è la nuova scuola della sintesi estrema, la partenza di un nuovo decennio, si è dentro o si è fuori. Trionfo del twist e riscatto del modo maggiore. Ancora qualche anno e lo chiameremo pop. Cresce la vera e propria industria della musica di consumo che diventerà un business colossale, multinazionale e spietato. Mina è una diva e c’è dentro fino al collo. Fra vent’anni nel ’78 ne avrà le tasche piene ma per adesso quella è un’altra storia...
Ho incontrato Mina per la prima volta nel 1978, in Versilia sotto il tendone di Bussoladomani. Il pubblico arrivava con i pullman da ogni parte d’Italia. Tutti sapevano che era l’ultima occasione per vederla – sì, vederla, perfino più che ascoltarla –, durante il concerto cantava due canzoni mie, volevo conoscerla assolutamente. La vidi, balbettai qualcosa e l’abbracciai. Pensai che era troppo bella e troppo giovane per lasciare, qualcosa secondo me non tornava, ma la decisione era presa, amen. Averla incontrata in quel momento, al termine del suo ventennio di fuoco e prima del ritiro dalle scene, deve essere la ragione per cui sono sempre stato legato al suo secondo periodo. Il distacco, la faccia in ombra del pianeta, quel tanto di ragione e di mistero da cui si è lasciata avvolgere per la sua pace e lo stupore di tutti.
Nel ’78 già da qualche tempo Mina è una strenna natalizia e in tv è un po’ che non si vede. Da discografica e manager di se stessa sceglie la fine dell’anno per pubblicare i propri album, che sono sempre doppi. In genere il primo dei due è per il largo pubblico e contiene il singolo che farà da battistrada scalando la classifica. Il secondo, mirato e progettuale, propone autori che il pubblico italiano conosce poco: Chico Buarque de Hollanda, Joan Manuel Serrat, Tom Jobim, Edu Lobo e brani di altrettanta sostanza: Che lui mi dia, La pioggia di marzo e innumerevoli altri...
È lontana e comunque insegna. Di sicuro non vuole farlo ma lo fa. I musicisti la adorano e non è un caso, quelli che la conoscono ma anche tutti gli altri. Per non parlare dei colleghi: Mina veleggia e volteggia libera sopra qualunque invidia, in un ambiente che dell’invidia fa il suo alimento energetico quotidiano. I migliori, i pochi che abitano meritatamente l’olimpo, la amano senza riserve. Mia Martini ha una devozione per lei. Mina insegna l’equilibrio dell’espressione fonetica, la pulizia e la chiarezza attoriali dell’emissione vocale, il peso maggiore o minore sulle sillabe col quale indirizza il significato di ogni passaggio nel testo della canzone. E poi la parte strettamente musicale, sulla quale molto ancora potrebbe essere scritto e indagato: scivola sopra lo steccato delle battute, sposta gli accenti musicali con tale leggerezza da renderlo naturale, gradevole, espressivo. Non si impunta fra il battere e il levare, ci dondola sopra. È quello che si sente nei dischi di Frank Sinatra – quelli swing, con l’orchestra di Count Basie – Mina ama The Voice. E anche la tromba di Chet Baker... Come dire che dietro una nota ci sono sempre il controllo del significato, la sicurezza, il pensiero...
La burattinaia di se stessa sta nell’ombra e muove i fili delle sue maschere. Monta il proprio teatro e sale in scena quando vuole e come vuole. Al cannibale lascia solo la voce, e gli deve bastare. Mette perfino una frontiera fra la vita vera e il resto. Più chiaro di così…
La rappresentazione di sé, ovvero che cosa essere e cosa comunicare, è la pietra fondante della carriera di ogni artista di peso e di lungo corso. Una consapevolezza precisa delle proprie capacità, dei propri limiti e delle aspirazioni raggiungibili. Senza questo la barca non si muove, caracolla ma rimane all’ormeggio. È qualcosa che conosco bene avendo fatto il produttore. La volontà deve essere affamata – parola di Keith Jarrett – quasi una monomania; il talento e la lucidità devono fare il resto. Il caso può anche pagare di tanto in tanto ma sono spiccioli. Oggi le campionesse da battere sono artiste-imprenditrici, Taylor Swift, Lady Gaga, che fondano e dirigono imperi fatti di musica, commercio e comunicazione.
L’imprenditoria di Mina viene da lontano e ha del pionieristico, soprattutto in un Paese come il nostro. Ma anche Mina sa da sempre chi è e a chi si rivolge. Canta di tutto ma non fa esperimenti o azzardi. Niente improvvisi angoli retti o curve pericolose nel suo stile. Lo stile è lei. Non cambia periodicamente look. Non ne ha bisogno dato che non si vede e forse non c’è. Bastano le maschere, e a quelle ci pensano insieme Balletti e Tallarini. Irride, sbeffeggia. Poi canta e fa sentire che è lì, nitida che sembra vicina da poterla toccare. Così la burla si fa ancora più sottile, o più feroce. La galleria dei titoli e delle copertine dei suoi album è già un’opera in sé. Indica il distacco ma non allude mai al mistero della sua assenza. Sarebbe scontato, autoreferenziale e banalmente in contrasto con l’idea stessa di distacco, che è molto più lieve e più alta. Il mistero è ingombrante e poco maneggevole, meglio giocare, giocare sempre. Fingere di disorientare e invece offrire sicurezza. Mina Anna Maria Mazzini da vicino è una sorpresa. È anche più del suo personaggio ma in questo argomento forse non è bene avventurarsi, il rischio è di rovinare tutto. Mina sa che in fondo anche il pubblico è lontano, c’è e non c’è. A volte la ascolta distrattamente. Sono due maschere che si guardano negli occhi attraverso la superficie di uno specchio, con intorno un vuoto irreale dove il tempo sembra fermo. Il mistero, se mai c’è stato, è sospeso come in un quadro di De Chirico. Nella Piazza d’Italia o in Versilia nel ’78.