Specchio, 24 novembre 2024
Gli annoiati cronici che non vogliono fare carriera
Macchinetta del caffè, una mattina feriale qualsiasi. Lui è un manager prossimo alla pensione con stipendio buono, agenda strapiena e un numero spaventoso di ferie arretrate a testimonianza della sua totale dedizione all’azienda. Lei è una neo assunta cui è stata offerta una promozione: più responsabilità da subito, dell’aumento se ne parlerà. L’ha rifiutata, tra lo stupore dei senior e la solidarietà degli junior. «So perché non le interessa fare carriera – si confida lui –. Gliel’ho sentito dire in mensa. Non vuole diventare come me. L’ha proprio detto: “non voglio fare la fine del mio capo”. Mi ha fatto male, perché forse ha ragione».
La vita lavorativa post pandemia somiglia a un pendolo tra troppo stress e troppa noia. Meglio, tra la condanna a credersi indispensabili e la sensazione di non contare nulla. Senza scomodare Schopenhauer, esaurimento nervoso e cronica mancanza di ambizione si possono spiegare con due inglesismi: burnout e boreout. La Gen Z, quella nata tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, nei prossimi anni rimpiazzerà i boomer, cioè chi è nato tra il ‘46 e il ‘64. Loro, i pensionandi, sono stati i primi ad ammalarsi di troppo lavoro: il burnout, ormai riconosciuto come un disturbo clinico, va tradotto letteralmente con «bruciato», «esaurito» o «scoppiato». Per la Gen Z il rischio è opposto: rassegnarsi e vegetare. Tirare a campare e non fare nulla più dello stretto indispensabile. Il sogno non è diventare un manager, il capo, quello che entra per primo ed esce per ultimo, ma tenere insieme il lavoro e la vita privata e a fine giornata sapere di aver concluso qualche cosa di buono non solo per il proprio conto in banca, ma per se stessi e possibilmente per il resto del mondo.
Il termine boreout, usato per la prima volta nel 2007 da due studiosi svizzeri, Philippe Rothlin e Peter R. Werder, consulente aziendale e filosofo, descrive l’insoddisfazione dovuta alla mancanza di stimoli e prospettive. Può sembrare la perfetta antitesi del burnout, ma in entrambi i casi il risultato è una disaffezione cronica che può trasformarsi in problemi di salute mentale e una sempre più scarsa motivazione a spendere energie e inventiva sul luogo di lavoro.
Negli ultimi mesi su Tik Tok, che sta alla Gen Z come Facebook ai boomer, il trend #boredatwork, #annoiatialavoro, raccoglie milioni di visualizzazioni. Il video classico è quello dei consigli per riempire i tempi vuoti. Fare a pezzetti un foglio, disegnare o fare una lavatrice per chi lavora da casa vale più che sforzarsi di andare oltre i compiti assegnati o trovare un nuovo modo per svolgerli. La penna degli annoiati cronici non cade quando finisce l’orario, ma addirittura prima.
Alla macchinetta del caffè si confrontano due generazioni diverse, lontane, ma comunque infelici. Per i datori di lavoro il risultato è in ogni caso catastrofico e a interrogarsi sulle soluzioni sono responsabili delle risorse umane e le grandi società di consulenza. L’americana McKinsey ai più giovani ha dedicato una piattaforma online, Mind the Gap, una raccolta di «letture per la Gen Z e i colleghi curiosi di conoscere la Gen Z». Le istruzioni per «colmare il divario» iniziano con l’invito a considerare i dipendenti come la «linfa vitale» dell’azienda. Non è buon cuore, ma business. Essenziale il dialogo costante tra i dipendenti per organizzare un carico di lavoro che sia il più possibile tagliato, quasi customizzato, su esigenze e peculiarità del singolo. Non lesinare sui feedback, la valutazione a lavoro concluso. Bisogna incentivare lo smart working, opzione ormai irrinunciabile, ma pure agevolare lo scambio di competenze tra generazioni face to face, faccia a faccia, perché i millenni cambiano ma il valore della chiacchiera resta immutato.
Anche se lo stipendio è ancora il fattore più importante nel decidere se accettare o no un lavoro, la Gen Z lo considera meno di tutte le generazioni precedenti. «Per conquistare il loro cuore le aziende e i datori di lavoro dovranno far valere i loro sforzi per essere buoni cittadini globali – aggiunge in una ricerca sul tema un’altra società di consulenza internazionale, Deloitte -. I fatti valgono più delle parole e le aziende devono dimostrare il proprio impegno nelle sfide sociali come sostenibilità, cambiamento climatico e inclusione». Sembra poi che l’epidemia di «noia cronica», il boreout, sia un problema più femminile che maschile. Potrebbe dipendere, ragiona ancora lo studio, dalla maggiore predisposizione delle donne a sentirsi «utili e valorizzate». Ma i numeri ci dicono che a svolgere ruoli strategici sono più gli uomini delle donne: una lei ha più probabilità di vedersi assegnare compiti secondari, ripetitivi e poco stimolanti. La Gen Z non vuole somigliare ai suoi capi, presto ex, ma fatica a immaginare un nuovo modo di stare sul lavoro. E nel pendolo tra noia e stress rischiamo di restare piantati, annoiati e infelici, davanti alla stessa macchinetta del caffè.