Robinson, 24 novembre 2024
Intervista alla vedova di Alighiero Boetti
Mentre vado a trovare Caterina Boetti, conservo l’immagine della mostra in corso all’Accademia di San Luca a Roma sulle opere di Alighiero Boetti (aperta fino a metà febbraio e curata con semplicità e grande competenza da Marco Tirelli). La selezione dei lavori suggerisce la costante ossessione boettiana per il numero e per il quadrato.Unica eccezione nella mostra è forse l’ultima realizzazione di Boetti, un Autoritratto in bronzo, ricavato da un calco del suo corpo. Mi dice Caterina che quel lavoro voleva rappresentare per Alighiero i quattro elementi del mondo. Era il 1993, Boetti sarebbe morto l’anno successivo e quell’opera, dal sapore funerario, collocata sullo sfondo del portale progettato da Borromini, riassunse l’intero suo pensiero. Caterina è una donna un po’ speciale: la sua discrezione sconfina a volte nella timidezza, in quel vago territorio sentimentale dove esserci e sparire sono tutt’uno. Caterina ha competenze di arte islamica. Ha una voce un po’ roca e profonda. Dice di essere nata tre volte. Quando è venuta al mondo; quando venticinquenne ha sposato Alighiero; infine quando è sopravvissuta a un brutto incidente di cui ancora mostra i segni. Ci vediamo nell’ultima residenza dell’artista che è anche sede della Fondazione. Sono trent’anni che Boetti è scomparso. Ancora giovane. Ancora affascinante con quella sua inquieta dimestichezza con la vita.Quando hai conosciuto Alighiero?«Ero da poco tornata a Roma da Londra dove vivevo e studiavo. Avevo 25 anni lui 50. Un comune amico mi disse che Alighiero voleva comprare un’automobile. Mio padre aveva un’importante concessionaria dell’Alfa Romeo, un marchio che Alighiero amava. Ci incontrammo lì, in quel salone».Sapevi chi era?«Avevo informazioni vaghe su di lui. Vidi un uomo dall’aria distratta aggirarsi tra le macchine. L’amico ci presentò. Poco dopo mi chiese di entrare in una delle automobili esposte. Parlò ininterrottamente per una mezz’ora. Il tempo volò via. Mi disse che era di origini nobili, nato a Torino e che viveva a Roma dai primi anni Settanta, che era stato in Afghanistan, un Paese che considerava la sua seconda patria. Sembravamo sul set di un film. Mi disse che aveva due figli, Agata e Matteo, e che era stato sposato con Anne Marie Sauzeau. Mi parlò di un suo avo viaggiatore in Oriente. Avvertii un’intesa profonda. Quando ci lasciammo disse che avrebbe preso la macchina a patto che gli avessi dato il numero di telefono».Ti corteggiava?«Voleva essere seduttivo. Il corteggiamento iniziò con una serie di fax che mi spediva tutti i giorni».Che cosa ti scriveva?«In realtà non scriveva, mi mandava delle buste postali disegnate che commentava a voce per telefono. Eroincuriosita e affascinata. Mi chiese di visitare il suo studio, allora al Pantheon. Mi colpì l’atmosfera elettrizzante che si respirava».Nel senso?«Vedevo la presenza continua di assistenti, giovani artisti, critici e storici dell’arte, collaboratori occasionali. Compresi, nelle settimane a seguire, che Alighiero amava circondarsi di tutta quella variopinta e molteplice presenza di persone».Perché secondo te?«Per la curiosità congenita di incontrare “l’altro”, soprattutto se diverso da sé. Era convinto che solo dalla forza imprevedibile di tali incontri potesse svilupparsi un dialogo capace di arricchire la realtà. Una volta gli chiesi se tutto questo non rischiasse di togliere tempo al suo lavoro di artista».Cosa ti rispose?«Mi fece comprendere che prima di essere un grande artista devi saper essere un buon maestro. E questo lui ha continuato a esserlo per molte generazioni di artisti a venire».Lo hai conosciuto e frequentato negli ultimi anni che idea puoi restituirci della sua arte?«La prima cosa che mi viene in mente è che da artista rifiutava l’idea dell’opera unica. Ogni volta che si trovava davanti al bisogno di creare qualcosa, questo qualcosa doveva essere il risultato di un pensiero e di un’azione collettiva».Intendi dire che cancellava l’Io artistico?«Non credeva minimamente nel gesto titanico dell’artista, quella roba un po’ rinascimentale in cui da un lato c’è l’artista che si equipara a una specie di demiurgo e dall’altro c’è il mondo che lui trasforma, sconvolge e ricrea. Aveva troppo rispetto del quotidiano per considerarsi un’eccezione».Cosa vedeva nel quotidiano?«Scorgeva qualcosa che andava al di là della ripetitività dei piccoli eventi e che lo toccava profondamente: la felicità del caso. Così chiamava il suo rapporto con la realtà. Le immense potenzialità che il caso è in grado di sprigionare. Oltretutto, era un tema che lo affascinava teoricamente. Come si vede dal rapporto strettissimo che instaurò tra arte e scienza, in particolare con la matematica».Paolo Zellini ricorda nel suo saggio compreso nel catalogo della mostra (edito da Electa) che per Boetti il numero è l’unica entità reale nell’universo.«Alighiero era ossessionato dalla numerologia. Quando nacque nostro figlio Giordano fece un calcolo sui nostri compleanni che dimostrava come quella nascita fosse il frutto della felicità del caso. Dalle Mappe in poi, fino aiLavori postali, la matematica ebbe un ruolo fondamentale».In particolare amava l’11.«Associava a quel numero la struttura dei gemelli, credo tra l’altro che fosse un numero considerato fortunato dalla cultura afghana che Alighiero frequentava con grande passione. L’anno prima di trasferirsi a Roma fece un viaggio in Afghanistan e ne restò conquistato».Che anno esattamente?«Il 1971. Era il periodo in cui si guardava all’Oriente. Ad Alighiero era piaciuta la lettura diSiddharta di Hermann Hesse. Inoltre ha sempre amato viaggiare. Tra l’altro i lavori degli anni Novanta sull’Oeuvre postale lo testimoniano. L’Afghanistan era un Paese molto diverso da come lo abbiamo conosciuto dopo l’invasione sovietica del 1979».Fu allora che Boetti smise di andarci?«Gli fu precluso l’accesso. Ma negli anni in cui vi andò realizzò cose straordinarie, come ad esempio le720 lettere dall’Afghanistan, lavori postali nati dalla collaborazione con Gholam Dastagir, amico e socio con il quale aveva “inventato” il “One Hotel” a Kabul».Solo la fantasia di Boetti poteva dar vita a uno spazio del genere.«Era un posto pensato per viaggiatori e artisti. Se non fosse che oggi credo sia diventato una sede della polizia, mi verrebbe da pensare che fu una specie di “Chelsea Hotel”. Fu al “One Hotel” che Alighiero conobbe una delle persone che si sarebbe rivelata importanti per lui».Chi?«Salman Ali, un giovane afghano, che al “One Hotel” preparava e serviva il tè. Alighiero notò le sue capacità e gli propose di seguirlo a Roma. Salman divenne il suo assistente principale, il suo punto di riferimento. Fu Salman a occuparsi di Alighiero quando ebbe nel 1982 un grave incidente stradale. Fu sempre lui ad aiutarmi ad assisterlo quando, verso la fine, la malattia cominciò a divorarlo».Ricoprì anche un ruolo artistico?«La collaborazione di Salman agli “arazzi” fu fondamentale. Alighiero aveva trovato un gruppo di ricamatrici afghane con le quali realizzare gli arazzi che diventeranno la serie delle grandi Mappe ricamate del globo terrestre e poi i “kilim”. Alighiero andava due volte l’anno a Kabul per seguire quei lavori. Dopo il 1979 fu Salman a occuparsene anche quando la produzione degli arazzi si trasferì, con tutte le ricamatrici, da Kabul a Peshawar in Pakistan».Era questo che intendevi parlando del lavoro come azione collettiva?«Fu il suo modo di interpretare il gesto artistico. Molte di quelle opere Alighiero le firmava “dalle sconosciute donne afghane”. Era impregnato della loro civiltà, del gesto ancestrale che il ricamo richiedeva. Le sue passioni extraeuropee lo spingevano verso l’apprendimento sufi. Una figura di riferimento fu il poeta Sufi Berang. Realizzò una cinquantina di pannelli, ricamati su tessuto, su cui c’erano frasi dell’artista e versi di poesia in lingua farsi di Sufi Berang. Conviveva in Alighiero la forma dello sdoppiamento e della riconciliazione».Che cosa intendi?«Prima accennavi al numero 11 e ai gemelli. Ebbene sui gemelli realizzò nel 1968 un fotomontaggio in cui si ritraeva doppio. Era una specie di cartolina che tirò in cinquanta copie e che spedì ai suoi amici. C’erano due Boetti, non perfettamente uguali, che si tenevano per mano. Ecco il senso dello sdoppiamento e della riconciliazione, della differenza e della identità, dell’ordine e del disordine. Tutto questo venne poi richiamato quando cominciò a firmarsi “Alighiero e Boetti”».Come vivevi questo sdoppiamento?«Non era la trasformazione di Jekyll in Hyde, il bene nel male, quanto piuttosto poter vedere nella diversità un modo per contrastare la noia. Alighiero non si annoiava mai, aveva la capacità di sorprendersi continuamente nel quotidiano. Era imprevedibile. Ricordo ancora con emozione quando decidemmo di sposarci una seconda volta».Come una seconda volta?«La prima fu in Comune e l’ultima in chiesa. In mezzo ci fu un rituale ismailita. Eravamo al nord del Pakistan vicino al confine con l’Afghanistan. A circa tremila metri di altitudine. Alighiero era disteso sull’erba con il cielo che incombeva. Gli chiesi: che facciamo oggi? Ci sposiamo, disse. E chi invitiamo? Tutto il villaggio, rispose. Eravamo non distanti dalla città di Gilgit. Ci “sposammo” nei giorni a seguire. Qualche sera dopo ci portarono al matrimonio di una giovane coppia in un villaggio vicino».Vi sembrò normale?«Ma sì, furono i parenti dello sposo o della sposa a invitarci. Percorremmo in macchina delle mulattiere a strapiombo. Trovammo un’atmosfera gioiosa. Ci fecero sedere vicini. Accanto ad Alighiero solo maschi, accanto a me solo donne. Dopo la cerimonia bellissima e il cibo offerto, i maschi cominciarono a ballare. A un certo punto il padre della sposa invitò Alighiero a danzare con me. Salimmo su una pedana di tavolacci e ballammo».A quel punto?«Ci muovevamo senza sfiorarci. La verità è che i partecipanti del villaggio volevano il contatto fisico. Alighiero a quel punto mi afferrò come in una mossa di tango e mi fece fare un mezzo volteggio. In quel momento mi cadde l’ hijab cioè il velo. E tutta la gente andò in visibilio. Fu un tripudio di urla e di applausi. Alla fine alcuni del villaggio mi chiesero perché avessisposato una persona più grande di me. Fui colta di sorpresa. E tacqui. Allora sorridendo una donna insinuò perché lui è ricco e tu sei povera. No, io sono più ricca di lui, risposi. La donna non capiva. Per loro era giusto che l’uomo anziano sposi la giovane in quanto ricco. Ma non il contrario».Dicevi che vi sposaste anche in chiesa.«Sì, Alighiero stava già male. Desiderava farlo. Così magari mi guadagno il paradiso, ironizzò».Come è stato il vostro ultimo periodo?«Non si può descrivere la sofferenza. Scoprì di avere un tumore già avanzato, con metastasi al cervello, nell’autunno del 1993, proprio nel periodo in cui stava preparando la grande mostra a Grenoble. Ricordo la sua profonda tristezza. Proprio ora che si sentiva felice e con il nuovo figlio, Giordano, che adorava, era giunta quella maledetta sentenza, che lo costringeva ad abbandonare tutto quanto aveva realizzato. Ho tenuto Alighiero a casa negli ultimi mesi di vita».Che cosa ti resta del rapporto con lui?«Dal punto di vista fisico il ricordo della sua capacità sorprendente di non riuscire mai a stare fermo né con il corpo né con la mente. L’arte per Alighiero coincideva con il movimento e con il respiro. Con lui ho avuto la sensazione che il cerchio della mia vita si chiudesse. E dentro quel cerchio ci fossero tutte le nostre esperienze, le sue intuizioni e la mia emozione nell’accoglierle. Anche tutto questo fu la conferma della felicità del caso».