La Lettura, 24 novembre 2024
Norman Mailer sul «difficile mestiere dello scrittore»
C’è tutto il talento, l’egocentrismo, l’agonismo di Norman Mailer in Il difficile mestiere dello scrittore, finora inedito in Italia, ora in libreria per la Nave di Teseo, che ben interpreta la citazione di Henry David Thoreau posta in esergo: «Siamo lame a doppio taglio, e ogni volta che affiliamo la nostra virtù, la corsa di ritorno arrota il nostro vizio». Uscito in inglese nel 2003, per l’ottantesimo compleanno dello scrittore, il volume è una sorta di pastiche che mette insieme brani di interviste, saggi, articoli e prefazioni usciti in precedenza, con materiali scritti per l’occasione. Lo spirito combattivo si fonde con lo sguardo retrospettivo, a tratti malinconico, di un uomo al termine della carriera, consapevole dei fallimenti e degli sprechi che ha fatto del suo talento. E questo è forse l’aspetto che finisce con conquistare il lettore.
Anche se spesso si rivolge ai «giovani scrittori» il libro, come chiarisce lo stesso autore nell’introduzione, non è un manuale di istruzioni per principianti, piuttosto un vangelo della scrittura secondo Mailer, con alcune intuizioni utili per aspiranti romanzieri. Come questa: «Decidere di uscire e andarsi a cercare un nuovo tema su cui scrivere è sempre un approccio sbagliato, almeno in una certa misura inautentico. Mi spingerei a sostenere che il tuo materiale diventa prezioso soltanto quando è di natura esistenziale, intendo un’esperienza su cui non hai alcun controllo». I pericoli del mestiere sono al cuore del libro, così come «le sue gioie e vicissitudini, la solitudine e la fama, se si ha questa fortuna che per certi versi è una sventura». Mailer tratta della trama, dei personaggi, dell’uso della terza persona e della prima, della gestione dell’intreccio, dei dialoghi, della suspense e del marketing dei manoscritti, della particolare psicologia dello scrittore, perché, annota, «non credo che i romanzieri, o meglio i bravi romanzieri, siano uguali in tutto e per tutto alle altre persone».
Ma è nella sua natura di «raccolta di spigolature letterarie, approfondimenti, folgorazioni, pensées, brontolii, intuizioni, rimpianti e proclami» con aggiunta di «qualche giustificazione e parecchi affronti» che Il difficile mestiere dello scrittore offre il meglio. Mailer ripercorre la sua carriera, analizza la genesi di opere come P arco dei cervi, uscito dopo il grande successo di Il nudo e il morto e dopo il mezzo fallimento di La costa dei barbari, scritto, rifiutato dall’editore, riscritto (sotto l’effetto di marijuana, eccitanti e calmanti diversi) e portato alla maggior parte degli editori americani «come una madre che sogna di far diventare attore il figlio e va a bussare alla porta di tutti i produttori». Per quel romanzo Mailer diventa agente dilettante, fattorino e consulente editoriale, «un Machiavelli dei pranzi di lavoro e un giullare degli aperitivi». Scrive: «Stavo imparando in tutta fretta il business editoriale, commisi centinaia di errori e pagai ciascuno di essi con un ulteriore spreco di energie».
Il libro è ricco di interessanti osservazioni sullo stile, quasi sempre partendo dall’autoanalisi. Mailer ammette che Il nudo e il morto, uscito nel 1948, quando aveva soltanto 25 anni, non aveva uno stile proprio, ma era stato scritto grazie a ciò che era riuscito a imparare leggendo James T. Farrell e John Dos Passos, con cospicue dosi di Thomas Wolfe e Tolstoj, oltre a «un pizzico omeopatico» di Hemingway, Fitzgerald, Faulkner, Melville e Dostoevskij. In generale arriva a sostenere che «i giovani autori trovino il proprio stile quando si rendono conto che la vita è anche pronta a ferirli». Così gli scrittori affetti da gravi malattie nell’infanzia arrivano quasi sempre a sviluppare un proprio stile nelle prime fasi della loro carriera, come Proust, Capote, Moravia, Gide, per non parlare di Hemingway che, non ancora ventenne, ebbe la sensazione inequivocabile di essere a un passo dalla morte. Una scrittrice di «eccezionale talento» come Toni Morrison, invece, è una «grande dilettante» perché il suo stile cambia da un capitolo all’altro: «Può scrivere pagine e pagine meravigliose per poi ciondolare in modalità pedante nel capitolo seguente. Così viola i suoi standard più elevati, la sua voce caratteristica, le sue singolari intuizioni».
Hemingway, secondo Mailer, «non era in grado» di scrivere una frase lunga e complessa con una pregevole architettura sintattica, ma seppe trasformare questa incapacità nella sua caratteristica «abilità nel plasmare brevi proposizioni dichiarative o lunghe frasi unite da congiunzioni». Faulkner, al contrario, non era in grado di scrivere in modo semplice, «ma le sue frasi ipersfarzose, sovraccariche, creavano un’atmosfera straordinaria».
Alcune pagine grondano di risentimento, spesso verso i recensori («Ci sono parecchi meschini killer nel nostro ramo»), come quando scrive che una recensione negativa sul domenicale del «Times» colpisce soprattutto il suo portafoglio lasciando relativamente incolume il suo ego, mentre quando era più giovane, ogni stroncatura era presa come un’offesa personale. I capitoli dedicati a inconscio, film, televisione e occulto sono a volte farraginosi, ma niente offusca il bagliore di osservazioni brillanti e geniali che riguardano maestri come Tolstoj, Lawrence, Henry Miller, Mark Twain, ma anche i meccanismi che governano il modo editoriale: «Il deliberato tentativo di scrivere un bestseller – osserva per esempio – comporta, dopotutto, una disposizione d’animo non troppo diversa da quella di chi decide di sposarsi per soldi, solo per scoprire che la mancanza di amore è più gravosa del previsto». Ammette che Il nudo e il morto uscì al momento giusto, nel 1948, quando gli scrittori erano pronti a romanzi sulla Seconda guerra mondiale, mentre Antiche sere, ambientato nell’antico Egitto, avrebbe potuto beneficiare dell’interesse per le dinastie egizie dell’anno precedente quando al Metropolitan di New York era stata allestita una grande mostra che fu poi portata in giro per il Paese («Quando apparve Antiche sere, mi ritrovai in fondo alla scia»).
La scrittura assume il tono dell’arringa quando lamenta che la letteratura è stata annientata nella seconda metà del XX secolo. Con un certo compiacimento sostiene che se Shakespeare ha forgiato la coscienza dell’Inghilterra, Joyce e Yeats hanno creato un’identità per l’Irlanda e Faulkner ha permesso di immaginare il Sud degli Stati Uniti, negli anni Ottanta del Novecento un’influenza di quel genere l’ha avuta soltanto Madonna. Continuando una polemica con le femministe che lo ha animato in varie occasioni, sostiene che la cantante «ha condizionato il modo di vestirsi, comportarsi e agire delle ragazze e, per il momento, ha avuto un ruolo più rilevante nella liberazione della donna del Movimento di Liberazione della Donna». La letteratura americana per lui si ferma agli scrittori della sua generazione. Non si salva neppure Jonathan Franzen: «Prese singolarmente, le frasi di Franzen sono magnifiche, e tuttavia non si è soddisfatti del risultato complessivo – scrive a proposito delle Correzioni —. Ostenta la propria ricchezza linguistica, un po’ come i nuovi ricchi ostentano i propri soldi».