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 2024  novembre 24 Domenica calendario

Dino Campana, genio e regolatezza

Se nella poesia italiana del secolo passato esiste una figura che ha acquisito più di ogni altra i crismi di una leggenda, questa è quella di Dino Campana. Le difficoltà nelle relazioni sociali e di ambientamento, il rapporto tormentato con la famiglia, il bisogno di solitudine e il continuo desiderio di fuga («mi trovo disperato e sparso per il mondo»), da cui i lunghi viaggi per treno o per nave (l’Argentina, forse la Russia), anche se di regola a piedi, su e giù tra la pianura e l’Appennino tosco-emiliano (Campana è stato per eccellenza un poeta camminatore, un consumatore di suole; come Arthur Rimbaud, o magari come Dante, visto che non poco fa pensare che anche Dante lo fosse), i rapporti per lo più pessimi con la società letteraria del tempo (nel suo caso quella fiorentina degli anni che precedono la Grande guerra), l’amore incandescente e turbolento con Sibilla Aleramo, la passione irresistibile per l’aperto e, viceversa, l’attrazione per la città come luogo dell’oscuro e dell’insidia; e ancora, la non conformità dei comportamenti pubblici e privati, spesso scomposti e aggressivi, sebbene alternati ad altri di straordinaria dolcezza e inermità, i tanti mestieri, i tanti arresti, i tanti ricoveri in cliniche per malattie mentali, l’incapacità di riconoscersi in qualcosa di strutturato, perfino la sua stessa energica presenza fisica e la trasandatezza nel vestire...

Tutto sembra messo lì apposta per comporre una figura esemplare del poeta maudit vittima delle convenzioni sociali, perseguitato e non integrato, irregolare e ribelle. Tanto più che tutto questo andrebbe posto sotto il segno non solo o tanto del disagio esistenziale, quanto, come accennato, della malattia psichica, via via diagnosticata dai medici o ricordata da amici e conoscenti come eccesso d’esaltazione, d’instabilità, d’impulsività, e poi, senza mezzi termini, come follia, pazzia o demenza. Internato in manicomio – quasi subito quello di Castel Pulci, presso Badia a Settimo – nei primi mesi del 1918, il poeta di Marradi (dov’era nato nel 1885) non ne sarebbe più uscito. Morirà il 1° marzo del 1932, per una setticemia. Ma intanto i Canti Orfici, il suo unico libro di poesia, uscito nel 1914 presso Ravagli, una piccola stamperia del suo paese natale, aveva cominciato già da un po’ la strada che lo avrebbe portato fino a noi.
A porre un po’ di ordine in questa situazione tra biografica e critica, arriva adesso un volume che raccoglie per intero L’opera in versi e in prosa di Campana, uscito a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta per I Meridiani Mondadori. E si tratta allora di un evento di un certo rilievo, visto che per l’irregolare e imprendibile Dino segna l’ingresso in pianta stabile nella costellazione più illustre dei classici della nostra letteratura.
Ma come ci sta?
Be’, a tutta prima si direbbe bene, non fosse altro perché il curatore procede di regola con competenza e equilibrio nel cospicuo apparato composto dall’introduzione, dalla cronologia e dal commento ai testi. Come a dire che, si tratti di un episodio biografico incerto, di una questione compositiva o di qualche particolare snodo testuale, il riconoscimento della statura e della singolarità del nostro poeta debbono comunque passare per la filologia, il che poi significa anzitutto per il senso dei fatti e per la ragionevolezza; meglio ancora: per il buon senso. E questo, in fondo, fa pensare che Campana e la sua poesia, se privati del loro mito, come accade giusto qui, potrebbero convincere e brillare persino di più.
Se il libro edito è uno soltanto, non pochi sono però gli scritti, per lo più in prosa, che fanno parte dell’officina del poeta: lettere, quaderni, taccuini, testimonianze e documenti che nel corso della storia critica campaniana hanno assunto il valore di autentiche reliquie (il Quaderno, il Taccuino Matacotta, il Taccuinetto faentino, le Carte Ravagli, le Carte Bandini...). In ogni caso, spicca tra tutti Il più lungo giorno, il libro manoscritto che nel dicembre del 1913 Campana aveva consegnato a Giovanni Papini con la speranza che fosse pubblicato, e che Papini aveva subito passato all’amico Ardengo Soffici, che lo aveva poi smarrito (la notizia del suo ritrovamento sarà data solo nel 1971). La vicenda, di per sé rocambolesca, anche se per Campana quanto mai disperante, non è stavolta una leggenda ma un fatto certo. Leggenda è semmai la testimonianza del poeta stesso di avere ricostruito tutto per via di memoria il libro perduto, fino ad assemblare i Canti Orfici poi editi, i quali in realtà non sono soltanto più ampi, ma presentano anche redazioni delle poesie regolarmente più valide di quelle del Più lungo giorno.
E si arriva così a un punto decisivo: la consapevolezza, la lucidità d’intenti, la coerenza con cui questo presunto poeta veggente, azzardato, tutto istinto e immediatezza, avrebbe in realtà lavorato al suo libro. È uno degli argomenti che Turchetta rimarca con più forza (va ricordato che questo Meridiano costituisce per lui il risultato, come suol dirsi, del lavoro di una vita, nonché di una lunghissima fedeltà verso il poeta di Marradi). Si tratta di questo: la coerenza ma anche la padronanza, da parte di Campana, del proprio lavoro di scrittura e di composizione testuale, e di conseguenza la compiutissima unità formale e strutturale dei Canti Orfici, libro-opera di poesia quant’altri mai, a partire dall’intenzione del poeta di dare adito a una «poesia europea musicale colorita», formula di per sé magari un po’ generica, ma che nel suo sincretismo dice di un’indubbia apertura culturale, nonché di uno sguardo portato con empatia poetica sulle arti figurative e sulla musica (oltre che un consumatore di suole, Campana è stato anche un incredibile divoratore di libri e riviste: Johann Wolfgang von Goethe, il Romanticismo tedesco, e poi soprattutto gli amatissimi Friedrich Nietzsche e Walt Whitman, per citare solo qualche nome; e in ogni caso le sue conoscenze, acquisite per lo più in lingua originale, erano aggiornatissime, futurismo e cubismo compresi).

Che dire? Mario Luzi, che di Campana è stato un cultore, sosteneva che il suo tempo non fosse ancora arrivato. All’opposto, secondo il miglior critico della nostra poesia, Pier Vincenzo Mengaldo, Campana è stato in definitiva un attardato legato a forme e modi poetici del tardo Ottocento e in senso lato decadenti. L’impressione è che possano avere ragione, e dunque anche torto, entrambi. Perché se è vero che la poesia di Campana spesso si costruisce su materiali espressivi e tematici stranoti, e perfino kitsch, della cultura italiana e europea nel passaggio tra i due secoli (ivi compresi i suoi miti ricorrenti: le figure femminili, la Chimera, Leonardo e Michelangelo, l’eterno ritorno, e via dicendo); nei momenti migliori, e più spesso nelle prose poetiche, è però diverso, e allora davvero unico e inarrivabile, il suono, e dunque anche l’orizzonte di senso, che da quei materiali così consunti scaturisce. In questo il suo caso assomiglia a quello di Amelia Rosselli (che, tra l’altro, lo amava sinceramente), che con materiali e bigiotteria novecentesca ormai scaduta è stata comunque capace di produrre talvolta il suo diverso e misteriosissimo suono poetico.
Così sarà difficile assestarsi su di una posizione univoca. E del reso in Campana tutto è ambiguità, o meglio ambivalenza: il valore attribuito agli stessi motivi e figure, l’oscillazione tra scorrimento e ritorno dell’identico, il cortocircuito tra istante e eternità (sempre in una dimensione – è importante – integralmente immanente), tra la fuga e il riproporsi invariato delle immagini, tra la mortalità e la riviviscenza, tra la superficie e la profondità, tra la notte e la luce («Nel giro del ritorno eterno vertiginoso l’immagine muore immediatamente»). Secondo Eugenio Montale, il «dono più certo» di Campana sta tutto nella «diversità del suo timbro». E come spesso ci accade, conveniamo con lui. E questo è appunto Campana: «Si affacciavano ai cancelli d’argento delle prime avventure le antiche immagini, addolcite da una vita d’amore, a proteggermi ancora col loro sorriso di una misteriosa incantevole tenerezza».