il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2024
La divinizzazione come arma politica dei romani
È con Augusto, quando era ancora Ottaviano, che incomincia il trapasso dallo stile Silla (farsi passare per prediletto di una divinità) allo stile “teocratico” (far credere alle masse che il “capo” ha un rapporto parentale con la divinità). L’elemento religioso diviene, man mano, il veicolo del rapporto fiduciario capo-masse. Non era rimasto nell’oblio il sagace tiranno Pisistrato, il quale, per riprendersi il potere, tornò in Atene – donde aveva dovuto allontanarsi – su di un carro nel quale ospitava una donna di enorme statura che fece credere essere Atena in persona.
Ottaviano era un precoce, e proprio per la sua precocissima maturità politica era stato notato e prescelto da Cesare. Appena diciottenne o poco più, rientrato prestamente in Italia dall’epiro alla notizia del cesaricidio, come primo atto pubblico proclamò che il congiunto suo appena assassinato era diventato dio: la messinscena a ciò mirante fu efficace e supportata dall’apparizione di una cometa rimasta visibile per sette giorni. Lo racconta con ironia Plinio nella Storia naturale (II, 23, 93-94). Così, da quel momento in avanti egli fu «figlio di dio». Non era importante che la cosa venisse creduta dal Senato romano o addirittura da Antonio suo rivale: era importante che lo credessero la massa militare, ormai decisiva, e la plebe urbana quantunque scanzonata. Vulgus credidit, commentò Augusto nelle sue memorie.
È risaputo l’ordinamento che Ottaviano, non ancora Augusto, stabilì per l’egitto appena conquistato (30 a.c.): fu provincia riservata a lui soltanto, a lui vincitore della lunga guerra civile e futuro princeps. Perché questa anomalia? L’egitto stava per essere conquistato già trent’anni prima, da Pompeo, nel 63 a.c., a seguito della vittoriosa sua campagna in Siria e Palestina: ma il Senato lo bloccò adducendo che i libri sibillini lo vietavano. Le ragioni del divieto erano tante, politiche ed economiche, ma tra le tante vi era anche la peculiarità di una terra, l’egitto, matrice da millenni di divinità variamente mutuate nel Mediterraneo, innanzi tutto in Grecia come ben sapeva e spiegava Erodoto. Era la terra del “divino”, dei faraoni, e poi dei re (i sopraggiunti Tolomei) divinizzati da vivi. Era un modello pericoloso. Augusto fece il grande passo, volle l’Egitto per sé. E quando lo ritenne opportuno, dichiarando guerra a Cleopatra, e, dopo la vittoria, liquidò spietatamente un governatore da lui nominato e amico suo, cui la regalità egizia aveva dato alla testa.
Si dice perlopiù che Augusto fu «dio» per i sudditi delle province orientali del vasto impero. Il che è ben documentato. In Egitto egli fu «dio» subito: nei templi statue che lo raffiguravano furono poste accanto o di fronte a quelle di Iside e di Osiride. A Priene, vicino Mileto, un’epigrafe onoraria fatta allestire ed esporre da un governatore suo congiunto proclamava, nel 9 a.c., il princeps «salvatore» (termine inflazionato in area ellenistica) nonché «portatore della buona novella». A Efeso, nella Basilica del mercato, una iscrizione parietale venera insieme Artemide e Augusto lì chiamato appunto «figlio di dio». Il documento si data all’inizio dell’era volgare, circa un quindicennio prima che Augusto morisse (CIL III, 13676).
Ora, grazie a questo libro di Orazio Licandro, sappiamo qualcosa di più: sappiamo che la divinizzazione in vita del princeps aveva attecchito anche in Occidente e aveva trovato anche qui spunti e radici. Licandro ha valorizzato, in questo libro, un «miracolo» dei tanti di cui le fonti romane pullulavano (tanto da indurre Giulio Ossequente a farne un catalogo): un «miracolo» avvenuto in riva al Tevere nell’anno 716 dalla fondazione di Roma (38 a.c.), citato per incidens dallo storico severiano Dione Cassio (XLVIII, 43, 4).
A partire da tale «miracolo» – che non era sfuggito alla dotta e sensibile attenzione di Reimarus – Licandro ricostruisce un filo di pratiche e tradizioni relative al «sacro» che parte dall’olio miracoloso scaturito presso il Tevere e giunge agli imbarazzanti rituali medievali ancora oggi in uso alla corte d’inghilterra. Povero Voltaire! Nella Roma del bigottismo di Stato imposto da Augusto l’opera di un grande poeta e scienziato materialista come Lucrezio fu messa da parte, e i poeti di regime, come Virgilio, stentavano persino a farne esplicitamente il nome. E ben si comprende: il grande poeta e scienziato, nel quinto libro del poema Sulla natura, parlava, tra l’altro, anche della religiosità strumentale e rituale vigente (ancora in epoca repubblicana!) e parlava delle preghiere e delle genuflessioni davanti alle statue degli dei come di «reverenze davanti a un sasso». Scrisse Polibio, impregnato di filosofia greca, un secolo e mezzo prima del «miracolo dell’olio»: «La superstizione religiosa che presso gli altri popoli è oggetto di biasimo, è ciò che mantiene la coesione dello Stato romano» (VI, 56).