Avvenire, 24 novembre 2024
Il dolore di «little Gaza» al Cairo
Il Cairo ( Egitto) – È qui, ma è come se non ci fosse. E infatti, nella lunga giornata trascorsa insieme per incontrare le famiglie dei suoi connazionali, Taghreed rimane sempre in disparte, gli occhi fissi sul cellulare. Messaggi e notizie dalla Striscia, gli aggiornamenti dei parenti da diverse località si alternano alle immagini strazianti – quelle che in Occidente non si vedono mai – dei corpi estratti mutilati dalle macerie. Come lei, i palestinesi che ce l’hanno fatta a lasciare Gaza e a rifugiarsi al Cairo, quando ancora si poteva, hanno messo in salvo la vita. La loro esistenza, però, qui resta precaria: il ricordo di quello che hanno vissuto li perseguita, l’apprensione per i familiari rimasti indietro li schiaccia. Il futuro, poi, è un’incognita. Per i gazawi in Egitto non c’è riconoscimento dello status di rifugiati, sono “ospiti” senza permesso di residenza, né possibilità di lavorare. Così i risparmi si esauriscono, proprio quando li si vorrebbe inviare a chi è ancora là sotto le bombe, senza viveri. Tamer e la moglie Feeda, che con i sei figli si sono sistemati nel quartiere di Nasr City, a Est del Nilo, sembrano poter ancora contare su qualche risorsa. Evacuati a gennaio, si sono lasciati alle spalle una vita agiata, un’attività commerciale fiorente e una villa – tiene a precisare Tamer – da duecentomila euro. In un video la mostra intatta, poi in altre immagini la si vede rasa al suolo. «Prima della guerra, facevo studiare i miei figli nelle scuole migliori, avevo un giro d’affari di oltre un milione di dollari. Ora sono a zero», confida nel salotto della nuova casa. «A Gaza abbiamo vissuto in una tenda. Ho visto i morti, trasportato cadaveri. Niente cibo, né acqua. Parte della mia famiglia è ancora là. Qui in Egitto siamo “ospiti” senza permesso di lavorare, e il problema più grande è che i miei figli non vanno a scuola da un anno». Chi non può contare su qualche risparmio ha vita durissima.
Nessun supporto dal governo egiziano, ma soprattutto niente sostegno dalle agenzie delle Nazioni Unite, né da Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, né da Unrwa che per i palestinesi può operare solo in Giordania, Libano, Siria, Gaza e Cisgiordania. Non in Egitto. Ad aprile l’ambasciatore palestinese al Cairo Diab al-Louh aveva chiesto allo Stato egiziano il rilascio di permessi di residenza temporanei, che però ancora non ci sono per i 100mila gazawi che l’ambasciata stima abbiano fatto ingresso dall’ottobre 2023. A Nasr City entriamo in un’altra palazzina, dove Bessan, madre di tre bambini, ha affittato un appartamento non ammobiliato, per risparmiare. Nel salone, solo uno stendipanni, un materassino, tavolo e sedie di plastica. In una stanza, abiti e giochi per terra. In un’altra, due letti singoli dove dormono in cinque. Suo marito, che lavorava in Israele, ora è bloccato nella Cisgiordania. Bessan passa in rassegna le volte in cui è sfuggita alla morte.
«A febbraio eravamo in una scuola a Rafah. Stavamo dormendo, abbiamo sentito un boato e visto pezzi di soffitto cadere. Ho tentato solo di fare spazio attorno a me, per respirare io e fare respirare i bambini. Una squadra di soccorso ci ha tirati fuori» Dalla porta d’ingresso spuntano Karam, 6 anni, e Nassim, 7. Da due mesi frequentano una scuola egiziana. «Per i palestinesi però è senza diplomi, ma almeno è gratuita per chi ha avuto un’evacuazione medica come noi, che abbiamo lasciato Gaza perché Nassim rischiava la vita per le ferite», spiega la donna. «La vita in Egitto è dura. Mio padre, cardiopatico, non prende più le medicine perché preferisce spendere i soldi per i bambini». Fanno ciò che possono i gruppi di mutuo-aiuto. «Abbiamo registrato duemila famiglie, ma ora abbiamo chiuso le iscrizioni, per riuscire ad assisterle» racconta Maryam, una giovane volontaria di Egyptians for Palestinians.
«Ciascuno aiuta con le competenze che ha, io raccolgo vestiti usati nella mia stanza al dormitorio studentesco e li distribuisco. Tra i bisogni principali c’è quello di un sostegno all’affitto per chi arriva avendo speso tutto nei costi di evacuazione ». Tra le vie strette di El Matarya, distretto settentrionale del Cairo, raggiungiamo Reem, studentessa del Nord di Gaza. Evacuata a Deir el Balah, nel centro della Striscia, viveva con i genitori, i fratelli, zii, cugini.
«È lì che siamo stati bombardati. Sono morti quasi tutti, tranne la mia famiglia, ma ho perso una sorella piccola. Mio cugino è rimasto orfano, e ha riportato ferite gravi», spiega. «Ad aprile ho lasciato Gaza con lui per assisterlo». Mostra un video dei dintorni di dove abitava, scene di corpi esanimi estratti dalle macerie, immagini difficili da guardare. Per rispetto, le guardiamo lo stesso. «Qui in Egitto facciamo fatica a permetterci ciò di cui abbiamo bisogno. Ma la difficoltà maggiore è vivere senza la mia famiglia». Per sostenere i numerosi cugini orfani di nuclei familiari diversi, ha avviato una raccolta fondi online. Non sono morti solo zii e zie. «Il numero totale delle vittime innocenti fra i miei parenti è di venticinque. Per la maggior parte erano bambini».