la Repubblica, 24 novembre 2024
L’azienda italiana che fa consegne nello spazio
Roma – Come tanti bimbi, anche Luca Rossettini sognava di fare l’astronauta. Lui però non ha mai rinunciato: prima la domanda per diventare pilota, poi il corso da ufficiale paracadutista, poi il dottorato in Ingegneria aerospaziale. Fino al concorso della verità, nel 2008, all’Agenzia spaziale europea, 15 mila candidati per quattro posti. «Mi hanno scartato all’ultimo test psicologico, nella selezione che poi è stata vinta da Samantha Cristoforetti», racconta. «In pratica mi hanno detto che sono troppo matto per fare l’astronauta. Ho pensato: allora sono abbastanza matto per farmi la mia navicella».Qualche anno dopo, D-Orbit è decollata per davvero. In un’orbita sempre più affollata di ambizioni e apparati, di governi o di privati, l’azienda del 49enne Rossettini, quartier generale in provincia di Como, è una «DHL dello spazio»: i suoi satelliti «camioncino» collocano nel punto esatto altri satelliti e in prospettiva li potranno rifornire, riparare e riciclare. D-Orbit ha appena raccolto capitali per 150 milioni, cifra rara tra le startup italiane, e siglato un contratto da 120 milioni con l’Esa.L’idea come nasce?«Dopo il concorso Esa sono andato nella Silicon Valley a studiare business e poi alla Nasa per un progetto sui piccoli satelliti. Lì ho capito che ci sarebbe stato un mercato: l’idea era fin dall’inizio costruire un’infrastruttura per trasportare cose e persone a livello interplanetario. Nel 2010 insieme al mio socio siamo tornati in Italia alla ricerca di finanziamenti».Perché qui e non negli Stati Uniti?«Lì le persone fanno una cosa benissimo, ma una: per un progetto del genere ne sarebbero servite 50. Grazie alla flessibilità italiana, lo puoi fare con quattro. E poi all’epoca lo spazio era ancora solo governativo, per degli italiani sarebbe stato difficile trovare contratti in America. L’Europa era vergine, anche se ci ha subito ridotto le ambizioni».Perché?«Il progetto era fantascienza e qui siamo molto meno propensi al rischio. Mi ricordo che il nostro primo investitore italiano era al telefono con un esperto dell’Esa, che rideva a crepapelle. Gli avevamo chiesto 5 milioni, ci ha dato 300 mila euro in cambio del 44 per cento dell’azienda».Si ricorda il vostro primo lancio?«Era il 2016, lanciavamo dall’India e seguivamo dalla control room a Como. Quando il satellite ha mandato il primo bip c’è stato un boato, la gente piangeva: bello».Nel frattempo è esploso il «New Space», che cosa significa?«Che stiamo passando da uno spazio in cui il ruolo dei governi era totale a uno in cui i governi coesistono con una parte commerciale privata sempre maggiore. La sostanza è che ora in orbita c’è un gran traffico».Buon per voi: all’inizio promettevate di eliminare la spazzatura spaziale, ora fate i soldi grazie all’enorme quantità di oggetti che mettiamo in orbita.«Il concetto è sempre quello di economia circolare, perché in prospettiva, se vogliamo che lo spazio sia sostenibile, le cose andranno costruite in orbita, con materie prime riciclate dall’immondizia spaziale. Per prepararci a quando avverrà però dobbiamo muoverci da un mercato all’altro, man mano che si sviluppano. Abbiamo iniziato con i satelliti cargo, gli ION, che “consegnano” i satelliti nel punto esatto permettendo di tagliare tempi e costi. Poi restano in orbita dove li usiamo per fornire cloud computing o fare sperimentazioni. Il prossimo passo è aggiungere un braccio meccanico, che permetterà di prendere, spostare, riparare».Nel 2022 eravate a un passo dalla quotazione, valutati oltre un miliardo. Perché avete rinunciato?«Avevamo già i voli per l’America prenotati, nonostante i mercati finanziari fossero pessimi. Poi uno degli investitori mi ha chiamato per propormi di aggiungere altri soldi con uno strumento tossico, che gli avrebbe permesso di scommettere sul ribasso del titolo. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso».Ci riproverete?«Tra qualche anno e in condizioni diverse, quando saremo profittevoli. Abbiamo iniziato un percorso per strutturarci e raccolto un grande finanziamento dal gruppo giapponese Marubeni, che ha 160 uffici nel mondo e ci aiuterà ad arrivare dove da soli non potremmo. Intanto stiamo costruendo un nuovo stabilimento produttivo».Elon Musk domina il mercato dei lanci con SpaceX e dei satelliti con Starlink. Il governo italiano valuta di rifornirsi da lui: è un rischio?«Musk è un genio che ha stimolato l’industria, producendo a basso costo quello che si pensava impossibile. Ma Italia e Europa devono stare attente: se ci affidiamo solo a un monopolista privato, di un’altra nazione, che ha già mostrato di poter spegnere l’interruttore, rischiamo di trovarci con il fondoschiena a terra. Starlink può andare, ma nel frattempo studiamo come fargli concorrenza sulla prossima tecnologia, visto che abbiamo le competenze».L’uomo colonizzerà lo spazio?«Proiettiamoci fra 500 anni: che l’umanità abbia colonie su altri pianeti è probabile. Allora perché non partire ora? Noi umani abbiamo la vocazione ad andare “dove nessuno è andato prima”, per citare Star Trek».Più che Star Trek oggi pare Star Wars: una corsa agli armamenti che oscura la dimensione civile dello spazio. È un problema per voi?«Si può certo definire una corsa agli armamenti: lo scenario in cui i conflitti si trasferiscono allo spazio è possibile. Noi siamo una Benefit corporation, non facciamo cose che hanno scopo offensivo, anche se ci priva di una fetta di mercato. Un problema però c’è: siamo tornati in Europa perché credevamo potesse essere l’ago della bilancia tra Ovest ed Est, lavorando con entrambi i mondi. Invece si è molto allineata agli Usa, perdendo questa vocazione».Lo spirito dei tempi, a maggior ragione con Trump, punta alla divisione tra blocchi.«Vero. Anche durante la Guerra Fredda però abbiamo trovato un punto di equilibrio atomico e credo che si troverà pure nello spazio. Sia in Star Wars che in Star Trek c’è un unico governo interplanetario ed è lì che dobbiamo arrivare per fare qualcosa di significativo: se andiamo avanti con l’Agenzia americana, europea, cinese e russa finiremo solo per sperperare un sacco di soldi».