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 2024  novembre 24 Domenica calendario

Biografia di Jovanotti e famiglia

Cortona (Arezzo) – Jovanotti è tornato. Come il conte di Montecristo.
«Mi ha sempre affascinato. L’uomo che ha perso ogni cosa, anche l’amore, ma poi ritorna. Per questo ho intitolato Montecristo la nuova canzone. È uscita l’altro giorno, e mi hanno già scritto in tanti».
Tanti chi?
«Morandi, Cremonini, Carboni, Giuliano dei Negramaro, Paola Turci, Vasco Brondi, Emma, Tananai, Brunori, Giorgia...».
Di chi è più amico?
«Sono tanti gli amici, con molti ci frequentiamo. Quello con cui ho la storia più lunga è Carboni».
E Renato Zero?
«L’ho conosciuto da grande, ma si diceva che quando girava per le borgate in Cadillac chiedesse: hai bisogno di qualcosa? Ti servono cinquantamila lire?».
Luglio 2023, Santo Domingo, l’incidente.
«Andavo in bicicletta su una strada asfaltata da due giorni, c’era un dosso non segnalato, ho fatto un volo sbagliato. Ho visto il piede al contrario, la clavicola fuori. Ambulanza. Ospedale più vicino. Poi ospedale più attrezzato».
Diagnosi?
«Il femore non si era rotto; si era sbriciolato. In particolare il trocantere».
Cos’è il trocantere?
«La parte curva dell’osso. Mi hanno operato alla bell’e meglio. Ma non potevo tornare in Italia: nessuna compagnia aerea mi voleva imbarcare, il rischio di embolia o di trombosi era troppo alto. Così sono rimasto a Santo Domingo un mese».
Poi in Italia l’hanno rioperata.
«Non subito. Mi facevano lastre, risonanze, e vedevo facce preoccupate. Avevo una gamba quattro centimetri più corta dell’altra. Bisognava ricostruire l’osso, ma prima dovevo aspettare sei mesi: al trocantere sono attaccati i tendini e i muscoli, ed era tutto vivo. Mi hanno operato da sveglio».
Come mai?
«Otto ore di anestesia totale erano troppe. Sentivo le martellate; ma era come se le dessero a un altro».
Martellate?
«L’ortopedico in fondo è un falegname. Mi ha segato il femore a metà, e l’ha sostituito con una sbarra di titanio, circondata da pezzetti delle mie ossa. Una specie di Lego».
E adesso?
«La fisioterapia la faccio per bene e non mi pesa. Sveglia alle sei, prima sessione di un’ora e mezza. Leggo, scrivo, suono, mangio, guardo il lago Trasimeno che luccica laggiù sotto il sole. Poi la seconda sessione. Per marzo sarò in forma».
Cosa succede a marzo?
«Riprendo a suonare. Tournée nei Palasport. PalaJova. Sono curioso di provare la macchina, di vedere come funziona il mio corpo nuovo».
In Montecristo lei evoca l’estate del 1976, quando si disse: «Diventa quello che sei». Cos’è successo in quell’estate?
«Niente. Ho scelto il 1976 perché a dieci anni inizi a farti un’idea della vita, e un po’ anche per la rima. Da piccolo mio babbo Mario mi regalò un libro sulla tecnica del disegno, con una dedica, l’unica che mi abbia mai scritto: “A mio figlio Lorenzo, perché scopra se ha davvero la stoffa dell’artista”. Io l’ho regalato a mia figlia Teresa, quando lasciò medicina per studiare arte».
Cosa fa ora Teresa?
«L’aiuto regista di Guadagnino [sei mesi di stage come aiuto regia sul set di Queer, ndr]. E disegna fumetti».
Per anni un po’ tutti hanno creduto che A te fosse dedicata a Teresa. Invece era per sua moglie, Francesca.
«La scrissi per chiederle di sposarmi. La canzone di Teresa la composi invece quando Francesca era incinta. Si chiama Per te».
«È per te che sono verdi gli alberi, e rosa i fiocchi in maternità, è per te ogni cosa che c’è...».
«La vedo preparata».
Lorenzo, abbiamo la stessa età. Quando lei cantava Gimme five, non la sopportavo.
«Erano gli anni 80. Il ballo, i colori sgargianti, i vestiti eccentrici. Anni di festa; e la festa diventava un format. Lo spirito del tempo era l’energia. Arbore, i Righeira, la new wave, l’elettronica... Tutto era iniziato con la vittoria ai Mondiali dell’82».
Lei dov’era?
«In discoteca, qui a Cortona. Il dj titolare era andato a festeggiare, e il padrone mi chiese di prenderne il posto. Fu la prima volta che mi pagarono».
Lei ha un nome bellissimo, Lorenzo Cherubini. Che bisogno c’era di chiamarsi Jovanotti?
«Mettevamo su i dischi e registravamo la musica su cassette da un’ora, che rivendevamo per poche migliaia di lire: “Dammi la prima ora”, “io vorrei la seconda ora”. Non dico fosse un furto, ma mica potevamo metterci su nome, cognome, indirizzo. Così mi inventai questo nome d’arte, collettivo: Jovanotti».
Teresa è un nome di famiglia?
«No. È il nome di madre Teresa di Calcutta, cui il babbo era devotissimo. Le faceva da autista quando veniva in Vaticano».
Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa, che passa da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa...». Lo riscriverebbe?
«Certo. Fa parte del mio modo di stare al mondo. Di cogliere il bene, il nuovo, l’energia là dove c’è. Sono più ecumenico del Papa. Vicino a casa c’era un bar, noto ritrovo di fascisti. Poi andavo dagli scout, e il mio capo squadriglia leggeva Lotta Continua in chiesa».
Cosa faceva suo padre in Vaticano?
«Il gendarme. Accompagnò un amico all’esame: scartarono l’amico e presero lui».
Come mai?
«Era grande e grosso, figlio unico di madre vedova. Fu il parroco di Cortona a consigliarlo di presentarsi alla visita: don Amilcare, celebre per aver ucciso la perpetua».
Parroco assassino?
«Non lo fece apposta. Omicidio preterintenzionale. La perpetua era rimasta incinta, ma don Amilcare aveva già un figlio in paese e non ne voleva un altro. Così le fece bere un decotto di prezzemolo; e lei morì».
Qual è il suo primo ricordo?
«Ho tre anni, mia sorella Anna è appena nata, e l’uomo sta sbarcando sulla luna. Un ricordo in bianco e nero».
Diranno che lei racconta bugie.
«Tutt’altro: mi sono interrogato sulla possibilità che sia un ricordo costruito, invece è vero. Il babbo sì che diceva bugie bellissime».
Ad esempio?
«“Al Papa hanno regalato due pappagalli brasiliani, ma lui li ha liberati; se guardi il Cupolone, li puoi vedere volare”. Ancora adesso, ogni volta che guardo il Cupolone, mi viene da cercare i pappagalli brasiliani del Papa. Poi il babbo andò in missione con un vescovo in Borneo, e mi disse di avermi comprato una scimitarra, che sarebbe arrivata per posta. La sto ancora aspettando».
Dove abitavate?
«In via Porta Cavalleggeri 107. Un giorno arrivai ad affacciarmi dalla finestra del Papa. Piazza San Pietro era il nostro cortile di giochi».
Quali giochi?
«In realtà ero un po’ solitario. Giocavo a pallone alla Petriana, ma non mi convocavano mai per la partita della domenica. Chiesi: perché? L’allenatore mi rispose: “Perché sei ’na pippa”. Oggi lo arresterebbero. Però aveva ragione».
Cos’altro ricorda?
«Il 1978, l’anno dei tre Papi, le fumate nere in piazza, poi quella bianca. Un pomeriggio del 1981 il babbo telefonò per dirci: “Chiudetevi in casa, hanno sparato al Papa”. Un minuto dopo naturalmente ero in piazza, tra le sirene dell’ambulanza e della polizia, a vedere cos’era successo. I primi soldi li ho fatti diffondendo l’Osservatore Romano: cento lire a copia, e dieci lire erano per me».
È vero che Emanuela Orlandi era vostra vicina di casa?
«Sì. Era amica di mia sorella. Anna voleva iscriversi alla scuola di musica vicina a Sant’Apollinare, ma era tutto pieno. Un giorno le telefonarono: si era liberato un posto. Era quello di Emanuela. Per mia sorella divenne un’ossessione. Ha studiato il caso, incontrato suo fratello».
E che idea vi siete fatti?
«Che la verità non la sapremo mai. Mio padre era convinto che Emanuela fosse stata vittima di un maniaco, e il Vaticano non c’entrasse nulla».
È vero che lei era amico di Alessio Casimirri, il brigatista coinvolto nel rapimento di Moro?
«Andavamo in visita con la mia famiglia nella loro casa a Monterotondo: lui aveva un fucile da sub, le foto con le murene».
Ora è latitante in Nicaragua, ha un ristorante che si chiama La cueva del Buzo, il rifugio del sub.
«Il padre era il capufficio stampa del Vaticano, andavamo da lui a telefonare gratis alla zia Anna emigrata in Canada. Un giorno il mio babbo riconobbe Alessio in un bar, lui era già in clandestinità, e lo indicò ai poliziotti: quello è Casimirri».
Cosa votavate in famiglia?
«Il babbo era democristianissimo. Grande ammiratore di Rocco Buttiglione. Io lo prendevo in giro e lui reagiva: “È un uomo coltissimo!”. Sua sorella, zia Vera, aveva sposato un anarchico di Carrara, zio Aristide, costruttore di barche a vela, ed era diventata comunista. Sembravano don Camillo e Peppone. La zia era professoressa di lettere, al suo funerale la chiesa era piena di ex alunni».
Lei ha due fratelli più grandi.
«Bernardo e Umberto, che è morto a 46 anni, caduto con l’aereo che stava collaudando per conto di un amico. È stato lui a iniziarmi alla musica, ai cantautori».
Dei cantautori lei ha dato un giudizio critico.
«Non è critico, e non è neppure un giudizio. Semplicemente, non mi convince la distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Gloria di Umberto Tozzi non ha nulla da invidiare alla Locomotiva di Guccini. I miei preferiti sono Dalla e Battiato, proprio perché sono molto pop. Ma anche De Gregori lo è».
La musica per lei quando comincia?
«A 19 anni ero già tra i due o tre dj importanti di Roma. Sabato e domenica pomeriggio al Piper, tutte le sere al Veleno, vicino a Via Veneto: ci sono passato qualche anno fa, ora è un locale per scambisti. Feci un’estate a Porto Rotondo e una a Palinuro, dov’era in vacanza la moglie di Cecchetto. Venne alla consolle e mi disse: “Se ti vede Claudio, impazzisce”. Così le lasciai il numero di casa».
E Cecchetto?
«Mi telefonò a settembre: “Mia moglie, da cui sto per divorziare, mi ha segnalato te. Siccome non mi ha mai segnalato nessuno, verresti a Milano?”».
E lei andò a Milano.
«Avevo fatto un provino a Discoring, mi avevano preso. Discoring era la trasmissione di punta della Rai; ma già si vedevano i segni del declino. Dj Television era il nuovo. Non esitai».
Negli Anni 80 il settimanale Cuore, nato come inserto dell’Unità, faceva la classifica delle dieci cose per cui vale la pena di vivere. «Appendere Jovanotti per le palle» era sempre ai primi posti.
«Pensi che pure io leggevo Cuore».
Poi per la sinistra lei divenne un’icona. Per la campagna elettorale del 2008 Veltroni scelse una sua canzone: «Mi fido di te, cosa sei disposto a perdere?».
«Infatti perse».
Ma Renzi vinse le primarie del dicembre 2013 con un’altra sua canzone, Ti porto via con me.
«Questo non lo ricordavo. Renzi era una novità per la sinistra; poi qualcosa è andato storto».
I suoi grandi anni, Lorenzo, sono stati gli anni 90.
«Che sono stati molto migliori degli anni 80. Viene inventata la rete. Esplode il rap, la musica delle città: il rock è ancora una musica rurale, che si inurba; il rap è Eminem, New York, la street culture. Serenata Rap è del 1994».
Come fu l’incontro con sua moglie, Francesca?
«Siamo tutti e due di Cortona. Era un’amica di mia sorella; ma non mi ero accorto di lei. Un anno, era sempre il 1994, il parroco, don Antonio, mi chiede di regalargli un’ambulanza per portare i disabili al mare. Io dico: facciamo un concerto e con l’incasso compriamo l’ambulanza. Invito anche Pino Daniele. E vedo questa ragazza dagli occhi azzurri, bellissima. Mi ricordo di lei. Tento un approccio. Non ci siamo più lasciati».
Avete avuto anche momenti difficili.
«Sono io a essere difficile. Sempre in giro, viaggi da solo, tournée… Ma abbiamo condiviso tutto, amore, affetto, casa, famiglia, gatti, e una figlia meravigliosa».
Lei crede in Dio?
«La penso come Jung: conviene credere. Funziona. Se non credi in Dio, in cosa credi? Nel mercato? Nella tecnologia? È bello credere, è bello pensare di essere figli di qualcuno. Credo nell’assoluto più che nella dottrina. Ma fin da bambino mi affascinano la liturgia, i paramenti».
Credere non è una scelta.
«Non sono d’accordo. È una scelta, ed è anche un lavoro, dettato dal destino. Sono un illuminista riluttante. Ho fatto il liceo scientifico, ho una formazione razionale. Ma lascio la porta aperta al mistero, anzi spalancata. E ci passa una corrente travolgente. Una volta Saviano mi invitò in una sua trasmissione a cantare Imagine. Dissi di no».
Perché?
«John Lennon è un grandissimo. Ma non voglio cantare un mondo in cui non esista la religione. Un mondo senza religioni sarebbe peggiore, perché la fede è la cosa più umana di te. Significa far parte di qualcosa di più grande, in cui ti fondi. Il punto non è liberarsi delle religioni; è liberarci».
Come trova Papa Francesco?
«Il Papa è un monarca. Un istituzione. Umanamente, Francesco mi piace, mi diverte, mi emoziona. Gli si vuole bene. Ma l’idea che la Chiesa si debba trasformare in una onlus non mi pare del tutto condivisibile. La Chiesa è trascendenza. È la presenza di Dio nella storia».
Ne parla con molta passione.
«La Chiesa è casa mia. Ci sono nato dentro».
Come immagina l’aldilà?
«Se la risata è un’onda, l’aldilà sarà il punto più alto dell’onda, moltiplicato all’infinito. Il luogo dell’affetto eterno».
Perché affetto, e non amore?
«Perché l’amore è astratto. L’affetto si tocca. È la carezza, la cura».
Pensa di rivedere suo fratello Umberto?
«Io lo rivedo tutti i giorni. Mi sto dimenticando le sue mani, la sua voce, perché certe cose bisogna lasciarle andare; ma noi due siamo sempre insieme. Come diceva il babbo, a Umberto partiva un treno al giorno: il clarinetto, la chitarra, le donne... Era un cristiano vero, andava a messa ogni domenica, girava con la Bibbia in macchina, tutta sottolineata. Ora quella Bibbia ce l’ho io».
La morte non le fa paura?
«È il grande mistero. Però so che la morte fa parte della vita. Il primo impatto fu quando morì nonno Lorenzo, il babbo di mamma. Avevo otto anni, vedevo tutti piangere, ma a me pareva che lui dormisse, finalmente in pace».
Chi era nonno Lorenzo?
«Cavaliere di Vittorio Veneto. Aveva sposato una donna ricca, molto più grande di lui. Era fidanzato con la figlia e si era innamorato della madre. Poi lei morì, lasciandogli un patrimonio che il nonno dilapidò giocando in Borsa. Partì per l’Eritrea, faceva il camionista sulla linea Massaua-Asmara. Con il suo migliore amico giocarono alla lotteria di Tripoli: vinsero clamorosamente, ma l’amico fuggì in Argentina con il biglietto vincente. Lui tornò a Cortona e aprì un negozio di giocattoli. Ma il dolore per quel tradimento lo divorò, fino a ucciderlo».
La famiglia di Jovanotti è un romanzo.
«Manca il personaggio più interessante: zia Silvana. Aveva la sindrome di Williams: tipo la sindrome di Down, ma più grave. Era una bambina anziana. Non sapeva leggere e scrivere, faceva i dispetti, diceva cose feroci e altre divertenti. Era molto piccola, con le labbra grandi. Ricorda Ciccio Ingrassia in Amarcord
«Voglio una donnaaa!!!».
«Fellini chiamò quel personaggio zio Teo, cioè Dio. E Dio è imprevedibile. Il ritardo mentale esprime la vita nella sua essenza più folgorante. Amavamo moltissimo zia Silvana. Io le regalavo sempre un orsacchiotto, lei ne faceva collezione. Quando morì era bellissima, distesa, il volto rilassato. La morte l’aveva liberata».
E sua madre?
«Si chiamava Viola. Così piccola, con quel marito enorme ed esuberante, e quattro figli... Per tutta la vita ha sofferto di depressione, allora si chiamava esaurimento nervoso. E per tutta la vita io ho cercato di farla ridere. Aprivo la porta fischiando. Ero il clown di casa. Tutto quello che ho fatto, anche quando lei se n’è andata, distrutta dalla morte di mio fratello, l’ho fatto per il sorriso di mia madre».
Lei continua a pensare positivo.
«L’ottimismo è un dovere. È una forma di militanza. Capire dov’è la luce, quali cose si possono fare. L’ottimismo è la base della democrazia».
Russia e Cina sono fortissime, e non sono democrazie.
«Essere fortissimi non significa avere ragione».
Musk non le fa paura?
«Capisco chi è impaurito, sebbene io non lo sia. Musk è una rockstar, e sa di esserlo. È proiettato a superare i modelli con cui siamo cresciuti. Nella controversia è a suo agio: sa che l’algoritmo non misura il consenso, ma i numeri. Musk però non è solo il circo; è anche Starlink, che porta Internet nel Sahara e nei posti più remoti».
Quindi lei non uscirà da X? Molti artisti l’hanno fatto, compreso il suo amico Piero Pelù.
«Hanno sicuramente le loro ragioni. Non credo che Musk ne sia preoccupato. Quanto a me, uso X per informare su quello che faccio. Perché dovrei uscirne? Non mi riconosco nelle posizioni ideologiche, in questa idea punitiva della sinistra».
Con Pelù e Ligabue faceste una canzone molto bella, Il mio nome è mai più, contro i bombardamenti su Belgrado. Quell’intervento però pose fine al massacro in Kosovo.
«Ero giovane, ero naif. E lo sono ancora. Per me la guerra è una tragedia sempre. Non la conosco, appartengo alla generazione che ha fatto il militare per scherzo, ci diedero un fucile Garand che probabilmente neppure sparava. Non riesco a concepire che si possano uccidere bambini, anche per una causa giusta».
Neppure Trump le fa paura?
«No. Trump è un fenomeno del nostro tempo, e come tutti i fenomeni, anche i più inquietanti, è un’occasione per distinguere cosa Trump non è, e farla fiorire. Ha vinto nettamente, e gli elettori meritano rispetto. Dall’altra parte gli altri non sono riusciti a darsi una leadership forte, che si occupasse dei temi che davvero interessano».
Quali temi non interessano?
«Io sono attentissimo alla questione femminile. Il futuro è lì, è una battaglia da vincere, anzi è già vinta. Ma gli eccessi della cultura woke sono controproducenti. Non perdiamoci dietro alle parole, guardiamo alla sostanza delle cose».
Perché la sinistra perde?
«Perché non ha energia. E l’energia è lo spirito del tempo incarnato. Vale per i politici quel che vale per gli artisti, al momento di salire sul palco: o hai energia, o non ce l’hai. Io ce l’ho».
La Schlein ha energia?
«In questi mesi è migliorata nella comunicazione. L’ho incontrata una volta, mi ha parlato delle Lettere contro la guerra di Terzani, lei stava con Terzani e non con la Fallaci. Vuole fare bene, vuole fare del bene. Ma la politica è una macchina infernale, difficilissima da guidare».
E la Meloni?
«Nel comunicare è una fuoriclasse. Ma non mi piace quello che fa. L’immigrazione è un allarme, però è anche una risorsa, un fenomeno inarrestabile che deve essere gestito bene. Il nostro Paese ha bisogno di salvare la sanità pubblica, di ripensare la scuola, di prendersi cura delle persone. Tutto questo nel governo non lo vedo».
Non si offende per le imitazioni di Checco Zalone?
«Ne rido. Uno che ha scelto di chiamarsi Jovanotti non può essere permaloso».