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 2024  novembre 24 Domenica calendario

Miccoli comprò all’asta l’orecchino di Maradona

Miccoli, quanto è lungo un giorno in carcere?
«È infinito».
Quante volte ci ripensa in una settimana?
«Ho messo un punto, una pietra su quello che ho vissuto. Sto cercando di riprendermi la vita. Cerco di non pensarci più, di allontanare il ricordo che comunque riaffiora. Difficile, ma ci provo».
Se guarda indietro cosa vede?
«Un grande errore commesso, la forza di reagire e affrontare il peggio con dignità, serietà e a testa alta. Vedo una parentesi amara che finalmente si è chiusa. Oggi faccio fatica a parlarne, vorrei mettermela definitivamente alle spalle. Sono un uomo libero, ed è una sensazione meravigliosa».
Il suo orizzonte?
«La famiglia, la voglia di riconquistare il mio calcio. C’è la pace interiore che finalmente è possibile dopo l’incontro con Maria Falcone».
Fabrizio Miccoli, leccese, ex calciatore di grande talento, fra le altre di Palermo e Juventus, oggi è un uomo di 48 anni, e non ha perduto il sorriso. Non indossa più vistosi gioielli (orecchini, collane e bracciali) con brillanti, il taglio di capelli è meno stravagante rispetto a 10 anni fa, le camicie e i pullover sono meno vistosi: il look di oggi non sembra più un corner di griffe. Nel 2011, in una conversazione intercettata con Mauro Lauricella, il figlio del boss palermitano Salvatore, aveva oltraggiato la memoria di Giovanni Falcone, chiamandolo «quel fango». L’ex fantasista rosanero, condannato col rito abbreviato a tre anni e tre mesi per estorsione aggravata, ha scontato la sua pena (dopo sei mesi di carcere ha ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali), ha incontrato di recente la sorella del magistrato ucciso dalla mafia, Maria Falcone.
Cosa le ha detto?
«Non c’è stato bisogno di tantissime parole, ho incontrato una donna straordinaria che mi ha accolto con il sorriso. Ero emozionato e anche un po’ intimidito, ma vederla era un desiderio forte per spiegarle ancora una volta il significato di quelle parole. Dirle quanto mi fossi pentito. Quella vicenda ha fatto male a me ma soprattutto ai miei genitori, che ci sono sempre stati. Per tanto tempo ho provato un grande senso di colpa nei loro confronti. Vergogna, quasi. Se ne sono uscito è grazie a loro, a mia moglie Flaviana e ai nostri figli Diego e Swami. Il loro sostegno è stato vitale. Questo ho raccontato alla dottoressa Falcone, lei ha compreso il mio dolore. Non smetterò mai di ringraziarla».
Cosa ha fatto oggi?
«Sono stato nel mio mondo, con i ragazzi della scuola calcio a San Donato di Lecce: la crescita di questi talenti mi fa star bene. Siamo un centro federale Milan e qualche ragazzino lo abbiamo dato anche a squadre di serie A. Lavoriamo bene, aiutiamo chi ha situazioni familiari complicate. Seguiamo i nostri piccoli calciatori in maniera totale. Loro mi restituiscono i ricordi di quando anche io ero ragazzino».
Ieri e oggi, come sono cambiati i ragazzi che sognano il pallone?
«Sono diversi, hanno meno fame, meno voglia di emergere. Loro hanno tutto, spesso giocano a calcio per divertimento e non perché hanno realmente un obiettivo da perseguire. Poi, certo, quando c’è il talento lo si coltiva e chi ce l’ha comincia a crederci e si impegna al cento per cento».
Lei sì che ne aveva di talento…
«Così pare! Ero il Maradona del Palermo, giusto? Quella città è stata tutto per me: casa, famiglia, amici. Vita. Mi hanno adorato e io li ho amati: tifosi, compagni di squadra, allenatori, presidenti. Sono stati veramente una famiglia».
Città dove le è successo anche il peggio…
«Con la mia vicenda non c’entra niente il calcio e non c’entra niente Palermo. Ho fatto io un errore enorme».
Quale?
«Dire sempre di sì a tutti. Sono stato molto ingenuo, troppo disponibile, ma questo è il mio carattere che sto cercando di modificare. Ho sbagliato, ho pagato, ho chiesto scusa e ho messo un punto definitivo incontrando Maria Falcone con la quale faremo anche iniziative di solidarietà insieme per Palermo. Se mi faccio un esame di coscienza mi dico che ero e resto una brava persona. La porta di casa mia era sempre aperta».
A chi?
«A tutti quelli che bussavano perché avevano bisogno di aiuto. Pagavo le bollette a chi non aveva soldi, facevo la spesa a chi non riusciva a mettere il piatto a tavola. Dio solo sa quante aste di beneficenza ho organizzato per i bisognosi, per comprare attrezzature da donare all’ospedale pediatrico. Cose che mi hanno riempito la vita, anche oggi faccio aste».
E cosa mette all’asta?
«Alcune mie magliette da calcio, le più importanti, le scarpette della tripletta a San Siro…»
Ha ancora tanti amici?
«Guardi, ai tempi ne avevo diecimila. Oggi sono tre, ma va bene così. Bastano loro, sono fratelli».
Quanti le hanno voltato le spalle?
«Molti sono scomparsi ma forse era naturale che accadesse. Nel calcio poi ci sono conoscenze non amicizie, quindi me lo aspettavo. Devo dire però che quattro, cinque persone mi chiamavano quasi tutti i giorni. C’erano, li sentivo accanto».
I nomi?
«Roberto D’Aversa, Serse Cosmi, Francesco Moriero per esempio: persone che continuo a sentire tuttora anche per lavoro, uomini speciali».
In genere gli ex calciatori poi provano la carriera di allenatore. Non ci ha pensato?
«Certo, ho preso il patentino e ho anche allenato con Moriero la Dinamo Tirana. Ho capito però molto presto che non è un mestiere che fa per me. Per fare l’allenatore a livelli accettabili devi stare sul pezzo 24 ore al giorno, devi stare concentrato, mollare tutto il resto. Ecco, io non sono tagliato per questo. Lei ricorda com’ero io da calciatore?».
Lo ricordi lei...
«A volte non mi allenavo, ero poco attento all’alimentazione. Poi però tutti mi perdonavano perché in campo facevo gol, ed eravamo tutti felici».
Aveva un buon rapporto con i compagni di squadra?
«Ho voluto bene a tanti, quasi a tutti. Ed ero ricambiato. Portavo gioia nello spogliatoio. Una volta a Palermo avevo fatto shopping in un negozio di Dolce&Gabbana: comprai abbigliamento per circa 20 mila euro. Portai tutte le buste con i vestiti al campo, ci fu un assalto e regalai a ciascuno una cosa. Chi prese una maglia, chi una cintura. Insomma era stato uno shopping per tutti».
Ha guadagnato molto?
«Sì, abbastanza. Ma ho speso anche tantissimo. Ne ho fatte di stronz…».
Tipo?
«Macchine e orologi principalmente, non si contano. E poi vestiti, sempre cose all’ultima moda».
Ha conservato, ha investito?
«Certo che l’ho fatto. Oggi sono anche un imprenditore del turismo. Con mia moglie Flaviana gestiamo strutture alberghiere. Sono io che a volte vado a fare i check in ai clienti, mi capita di andarli a prendere in aeroporto, consegno le colazioni. Mi do da fare, altrimenti mia moglie chi la sente...».
Che donna è Flaviana?
«Seria, serena, semplice. La risposerei mille volte, donna straordinaria. Senza di lei non ce l’avrei fatta. Mi ha sempre rassicurato. “Vedrai, ne usciremo più forti di prima” diceva. E così è stato. E poi i bambini…».
Ma sono ragazzi ormai...
«Swami e Diego sono la mia vita, certo ragazzi di 16 e 18 anni ma per un papà i figli restano piccoli. Al maschio ho dato il nome di Maradona, gioca anche lui a calcio nelle giovanili della Salernitana».
Già, l’idolo Maradona, conserva sempre l’orecchino che ha acquistò all’asta per 25 mila euro?
«Certo, nessuno lo tocca. Se avessi potuto glielo avrei restituito, è un mio grande rammarico. Un giorno lo regalerò a mio figlio».
Il momento più brutto della sua vita calcistica.
«Quando mi sono rotto il crociato in Palermo-Sampdoria: non volevo uscire dal campo e tirai anche un rigore col ginocchio rotto, poi però dovetti lasciare. Brutto due volte, per me e per il Palermo: avrei voluto fare altri gol in quella stagione e portare la squadra in Champions».
Il più bello?
«La tripletta a San Siro, l’esordio in Nazionale col Portogallo».
Chi l’accompagnò in carcere?
«I tre fratelli di cui parlavo prima, loro con me all’andata, loro con me all’uscita: Giovanni Fasano, Pierpaolo Mengoli e Antonio Savoia.
Aveva paura?
«È stato un momento difficilissimo, quello è un posto dove mai immagini di stare, non lo auguro a nessuno. Però ero determinato ad affrontare quel percorso. Il mondo mi era già crollato addosso, quando sono andato lì era già la fase successiva. Prima cominciavo e prima finivo. Ho sofferto tutti i giorni, ma ho avuto la fortuna di incontrare persone che hanno capito chi ero e che non c’entravo con quel luogo. E mi hanno aiutato ad essere meno a disagio».
Cosa farà da grande Fabrizio Miccoli?
«Il calcio resta la mia vita, c’è la scuola per i ragazzi e chissà che non si concretizzi un progetto diverso... che in qualche modo mi riporta fra i professionisti».
Ce lo anticipa?
«Sono molto scaramantico, aspettiamo. Poi se non va a buon fine, continuerò a portare le colazioni ai clienti dei nostri B&B. Una cosa è certa: ho ancora tante partite da giocare».