Avvenire, 22 novembre 2024
Industrie in crisi, 45 addetti a rischio
Non c’è solo il grande malato “automotive”, sempre più debilitato da una transizione elettrica che non accelera e da una concorrenza cinese a cui non si riesce neanche a rimanere in scia. La crisi dell’industria italiana è più profonda per essere limitata esclusivamente all’auto. Dal tessile alla siderurgia, dagli elettrodomestici alla termomeccanica, dalle telecomunicazioni alla moda: sono tanti i comparti che vedono produzioni in calo e (di conseguenza) occupazione a rischio. Complice uno stallo europeo dell’industria, simboleggiato dalla frenata dell’ormai ex locomotiva tedesca, anche il nostro Paese sta vivendo una fase complicatissima. Nei giorni scorsi l’Italia ha certificato che i motori continuano a rallentare ormai da quasi due anni. A settembre, il dato della produzione è ancora in contrazione: -0,4% su agosto e 4% in un anno. Non solo: a ottobre l’indice Hcob Pmi della manifattura (elaborato da S& P global) ha registrato una frenata più brusca del previsto scendendo a 46,9 punti, rispetto ai 48,3 di settembre, al di sotto delle attese che stimavano il parametro a 48,6 punti. «Siamo in una fase caratterizzata anche da una battuta d’arresto degli investimenti – ha sottolineato il presidente di Confindustria Emanuele Orsini pochi giorni fa –. E questo rischia di farci perdere base produttiva, ma va tenuto ben presente che senza industria non c’è lavoro». La correlazione tra settore secondario e occupazione, del resto, resta molto forte in Italia nonostante il peso dei servizi sul Pil sia progressivamente cresciuto. Uno dei termometri principali per misurare lo stato di salute dell’industria nazionale e i posti di lavoro in bilico è il numero (e la rilevanza) dei tavoli di crisi aperti al ministero delle Imprese e del Made in Italy. Dal dicastero guidato da Adolfo Urso informano che attualmente si contano 35 vertenze in discussione (due in più rispetto all’ultimo aggiornamento con l’aggiunta dei tavoli Berco e Hiab) per un totale di oltre 30mila lavoratori coinvolti. Dall’ex Ilva a Conbipel, da Portovesme alla Jabil, da Beko ad Almaviva Contact, la geografia delle crisi industriali vecchie e nuove segnate da chiusure in vista, riduzioni occupazionali e processi di delocalizzazione non risparmia nessuna area dello Stivale, da Nord a Sud. Dal suo punto di vista, Urso ha evidenziato come negli ultimi due anni sono stati portati avanti oltre 200 tavoli di confronto con i sindacati (e circa 400 incontri di approfondimento tecnico) che in alcuni casi sono stati risolti positivamente: «Molte vertenze hanno trovato soluzione dopo decenni: dall’insediamento dell’attuale governo sono stati portati a soluzione casi come quelli di Marelli, Warstila, F.O.S Prysmian, Industria Italiana Autobus, Treofan, Ecologistic, Ferrosud. Perfino Termini Imerese è giunta a soluzione dopo 13 anni di cassa integrazione. Questa è politica industriale». Una narrazione, quella del ministro delle imprese e del made in Italy, che per la Cgil non è credibile: «Ci sono oltre 120mila lavoratori a rischio a causa delle trasformazioni, di cui 70mila solo nell’automotive, 25.459 nella siderurgia, 8mila nell’energia (centrali a carbone e cicli combinati), 2mila nel settore elettrico, 4094 nella chimica di base, 3473 nel settore del petrolchimico e in quello della raffinazione, 8mila nelle telecomunicazioni, per non parlare delle gravi ricadute di tali crisi sulla filiera degli appalti. E solo per citare le crisi formalmente riconosciute» ha affermato il segretario confederale della Cgil, Pino Gesmundo.
L’ultimo report della Fim Cisl relativo al primo semestre del 2024 aveva segnalato un allarme crescente sulla situazione del settore metalmeccanico, dove nei giorni scorsi si è interrotta la trattativa per il rinnovo del contratto: «Siamo passati dai 83.817 lavoratori coinvolti in crisi al 31 dicembre ai 103.451 del 30 giugno 2024 (+18.634 addetti) – si legge –. Un dato che conferma in maniera preoccupante i segnali già emersi alla fine dello scorso anno con il calo della produzione industriale». I numeri delle vertenze in corso e gestite dalla Struttura ad hoc del Mimit non rappresentano però un quadro esaustivo della situazione dell’industria nazionale, perché riguardano solo le situazioni più grandi e complesse. Vanno aggiunti, per esempio, i tavoli “di monitoraggio”, che sono 22 e riguardano circa 15mila lavoratori di aziende non in crisi ma che rientrano in settori in difficoltà. Non solo: l’elenco ovviamente non comprende l’attività di assistenza erogata dal ministero per i tavoli regionali che non hanno le caratteristiche per l’avvio di un tavolo di crisi nazionale (ad esempio Fedrigoni, Barry Callebaut…). Sulle vertenze locali aperte a livello regionale non esiste una mappatura nazionale capillare da parte delle istituzioni, anche perché in molti casi hanno un numero di addetti inferiore a 250. Da un parziale monitoraggio dei sindacati emerge però che la tenuta di centinaia di Pmi è sempre più a rischio, con un aumento di situazioni critiche (e di richieste di sussidi) che riguarda soprattutto alcune Regioni come il Veneto, l’Emilia Romagna e la Puglia. In questi casi la dimensione minore delle aziende, inoltre, riduce le capacità di reagire di fronte a scenari di mercato avversi e mette più a rischio i posti di lavoro.
Proprio per migliorare la gestione e il coordinamento delle vertenze aziendali sul piano territoriale che punti a salvaguardare meglio l’occupazione, due giorni fa si è svolto un incontro al Mimit per istituire una cabina di regia tra ministero e Regioni al fine di intervenire in modo più tempestivo ed efficace sulle crisi aziendali. «È grave – hanno commentato dalla Cgil – che una decisione del genere venga presa senza alcun confronto con le organizzazioni sindacali».