il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2024
Congresso M5S, le scelte di Travaglio
Alcuni lettori mi chiedono come voterei, sui quesiti della Costituente 5Stelle. Intanto, se fossi un iscritto, voterei a tutti i quesiti. Non ricordo, in Italia ma non solo, un’altra forza politica che si sia affidata totalmente alla base per decidere regole, nome, simbolo, programma, collocazione e alleanze. E non per finta: davvero. Parlando con diversi parlamentari 5S li ho trovati tutti atterriti dalla scelta di Conte – se folle o coraggiosa, lo sapremo domenica – di consegnare l’intero destino del Movimento (e quello suo personale) prima a 300 iscritti sorteggiati e poi agli 89mila tesserati. Senza rete né paracadute. Nessuno sa quanti né come voteranno, ma sarebbe bizzarro se qualcuno vi rinunciasse: dopo 15 anni a parlare di democrazia diretta, nessuno dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di contare qualcosa, per poi magari lamentarsi di non contare nulla. Tantopiù che i quesiti sono aperti, senza i suggerimenti espliciti o subliminali delle vecchie votazioni sulla piattaforma Rousseau.
Programma. Se n’è parlato poco sui media, sempre interessati alle cose che non interessano alla gente (il garante e i 2 mandati, che non spostano mezzo voto). Le proposte su pace, lavoro, sanità, scuola, ricerca, ambiente, giustizia, evasione, cultura, informazione, beni comuni sono quasi tutte ottime, e andranno integrate con battaglie ancor più drastiche e dirompenti, fregandosene dell’accusa di populismo: come l’abolizione dell’immunità parlamentare e dei soldi pubblici ai media, la cacciata dei partiti dalla Rai e dalle Asl, il ritorno alla sanità pubblica nazionale sottratta alle regioni e alle convenzioni con i privati ecc. Tutte riforme da fissare in disegni di legge prima delle elezioni, per sottoporle agli aspiranti alleati come condizioni per eventuali patti di governo.
Nome e logo. Sono meno importanti del programma, ma aiutano a farlo conoscere: accanto alle 5 Stelle, che come ogni marchio di fabbrica di successo non vanno cambiate, si potrebbero aggiungere due parole che richiamino il popolo contro le élite e il cambiamento radicale: gli elettori snobbano destra e sinistra e votano chi parla al popolo per cambiare.
Collocazione. Il dibattito sul M5S di sinistra o né di destra né di sinistra serve a poco e interessa a pochissimi. Bene ha fatto Conte, nella carta dei valori, a definirlo “progressista”: progressismo oggi è cambiare in avanti per seguire i tempi nuovi e possibilmente anticiparli, conservando il poco da salvare e cancellando tutti i passi indietro fatti dal 2021 da Draghi&Meloni. Chi pensa che progressismo equivalga all’unione eterna al Pd non conosce il Pd che, essendo tutto e il contrario di tutto, spesso riesce a esprimere un solo movimento: il rigor mortis.
Fra le tre opzioni al voto degl’iscritti, la miglior definizione è “progressisti indipendenti”. La peggiore è “di sinistra”, nobile concetto tradito e violentato da troppi abusivi per significare ancora qualcosa.
Alleanze. Sarebbe assurdo vietarle “a prescindere”, così come renderle obbligatorie: dipende con chi e per fare cosa. Spetta al leader trattare eventuali accordi di governo con i partiti più vicini o meno lontani in un contratto chiaro come nel Conte-1 con la Lega e nel Conte-2 col Pd, e proporlo agli iscritti. Ma senza matrimoni indissolubili né atti dovuti. Se il Pd fosse quello di Zingaretti, pronto a mettersi in discussione, sarebbe giusto provarci; se è quello della Schlein, che vota per la guerra, le armi, il condono salva-grattacieli, Fitto e la commissione Ursula tutta bellicismo e austerità, e imbarca pure Renzi, o peggio se tornasse in mano a un Bonaccini o a un Gentiloni, alla larga. Meglio l’opposizione. Per Comuni e Regioni, dipende dal candidato e dai compagni di strada: con una Todde o una Proietti, sì a occhi chiusi. Con un Orlando o un Lorusso, mai nella vita: a costo di saltare un giro.
Classe dirigente. Giusta l’idea che non bastino più i clic delle primarie online: chi si candida deve seguire la Scuola di formazione.
Mandati. Nell’utopia di Casaleggio, i 2 mandati avrebbero dovuto contagiare tutti gli altri partiti. Non è stato così. E ciò che era un vantaggio è diventato un handicap che ha costretto i 5S a combattere con le mani legate dietro la schiena, rinunciando a figure che hanno sputato sangue e pagato prezzi altissimi per realizzare il programma, poi sono uscite di scena senza più portare il loro consenso personale. La regola è già cambiata col “mandato zero” negli enti locali. Ma non basta a evitare il paradosso del M5S che, alleandosi con altri, appoggia Orlando per il decimo mandato e non può ricandidare uno dei suoi al terzo. Un limite è giusto per evitare che si bivacchi in Parlamento per 40 anni: 3 o 4 mandati, magari intervallati e in ruoli diversi (sindaci e presidenti di Regione non equivalgono a parlamentari e consiglieri). Ma non come regola interna: come legge valida per tutti (come quella per Comuni e Regioni). Nell’attesa, basta tetti: su proposta del leader, a fine legislatura gli iscritti votano chi ricandidare in base al lavoro svolto, nelle assemblee elettive e sul territorio.
Garante. Essendo le monarchie assolute tramontate da un pezzo e il Marchese del Grillo un’invenzione comica, un garante a vita, non elettivo e insindacabile non ha senso. Ce l’avrebbe un garante eletto a tempo, anche rieleggibile in base al rendimento, e persino retribuibile: potrebbe essere ancora Grillo, se però andasse a votare (possibilmente per il M5S) e facesse campagna elettorale (possibilmente per il M5S).