Il Messaggero, 22 novembre 2024
Roberto Capucci: se un mito si sente "normale"
Ha fatto la storia del made in Italy con i suoi vestiti architettonici, vertigini di stoffa che sembrano non conoscere la forza di gravità e nemmeno limiti di spazio o di creatività. Eppure Roberto Capucci, alla soglia dei 94 anni, rimane una persona schietta, elegante nei modi e posata nelle parole, con quel guizzo ironico che gli viene dalla consapevolezza del suo percorso, che a breve sarà raccontato dal documentario Roberto Capucci – La bellezza salverà il mondo, di Riccardo Mazza con la regia di Marco Speroni (prodotto da Siri Video con Rai Documentari) proiettato il prossimo mercoledì alla Casa del Cinema di Roma.
Che donne ha vestito?
«Le prime clienti erano le splendide signore dell’aristocrazia romana, donne con una personalità talmente spiccata e un senso della riservatezza tali da non voler mai indossare vestiti che erano già stati pubblicati, perché non erano più un’esclusiva».
Come si diventa un mito?
«Se sono un mito non lo so. Sicuramente sono uno spirito creativo».
I suoi abiti sono difficili da indossare.
«È perché preferisco selezionare chi li sa portare».
È stato criticato per questo?
«Il mondo va veloce: o lo segui o non lo segui. Io non voglio rincorrere stili che non mi rappresentano. Per questo mi hanno sempre mosso delle critiche. Ma non me ne sono mai curato».
È difficile non fare parte del sistema?
«Non mi interessa fare parte di alcun sistema: nel 1980 diedi le dimissioni dalla Camera della Moda e diventai un indipendente, presentando le collezioni nei paesi che mi invitavano».
Spesso ha disegnato i costumi per le opere teatrali. Com’è nato questo rapporto?
«È sempre stato nel mio cuore di amante della musica classica e della lirica. Partecipo a rappresentazioni importanti come balletti e opere, e ho avuto belle occasioni, come per la Turandot del Petruzzelli. Anche per il nuovo Marco Polo, opera con libretto inedito e musica composta dagli studenti del Conservatorio di Venezia, mi hanno chiesto di disegnare i costumi. Sono stati realizzati dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Ne ho seguito la realizzazione a distanza e ora i disegni dei costumi sono in Cina: hanno suscitato anche l’ammirazione del presidente della Repubblica».
Torniamo agli inizi. La sua prima collezione com’era?
«Fu presentata ufficialmente nel 1951 alla Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze. In realtà, la prima era già pronta nel 1950, ma mi fecero opposizione i colleghi considerandomi troppo giovane. Allora, al marchese Giorgini, il grande talent scout della moda italiana, venne un’idea. Fece indossare i miei vestiti alle figlie e alla moglie in occasione di una serata per compratori e stampa, alla presenza di firme come Irene Brinn e Oriana Fallaci. Il resto dei giornalisti italiani sin da allora mi detestò. Tuttora non ho un gran rapporto».
Nel suo atelier è passato tutto il mondo. Chi le è rimasto nel cuore?
«Silvana Mangano. La conobbi quando Pasolini mi chiamò per vestirla in Teorema. A Rita Levi Montalcini feci il primo abito per ritirare il premio Nobel nel 1986, diventammo amici. Alla sua morte trovarono 47 miei vestiti nel suo armadio. Vestii anche Marilyn Monroe tramite il suo fotografo, Milton Green, che le portava gli schizzi tra i quali sceglieva».
Ha sempre messo al primo posto il lavoro. Pentito?
«Lo faccio persino adesso, a 93 anni. Tengo ancora un diario giornaliero».
Sembra sempre molto ottimista. Da cosa dipende?
«Dal mio lavoro, che non ho mai tradito».Un consiglio a chi lavora in questo settore?«La moda è difficile. Meglio non occuparsi solo di quella: può essere una delusione»