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 2024  novembre 22 Venerdì calendario

A Baku petrolio, trivelle e propaganda


Il primo pozzo petrolifero industriale del mondo (1846) è ancora lì, sovrastato da una torre-scheletro un po’ sinistra, tra i grattacieli scintillanti del centro e il grigio Mar Caspio. È il monumento alla nazione asiatica che ha dato il via all’«oil boom» ben prima che Winthrop Rockfeller iniziasse a sforacchiare il Texas. Alle porte di Baku, pompano ancora centinaia di trivelle nella zona di Bibi-Heybat, distante appena 20 chilometri dallo stadio olimpico dove sono rinchiusi da dodici giorni, come in una bolla asfissiante, i negoziatori della Cop29 per discutere di transizione energetica e finanza climatica.
La Conferenza dell’Onu chiude ufficialmente oggi, ma pochi ci credono davvero. Ieri la presidenza azera ha presentato una bozza del testo finale che in dieci pagine è riuscita a scontentare tutti. Non c’e accordo sulla cifra – X mila miliardi, ma senza alcun numero davanti – né su quanto dovrebbero dare i Paesi sviluppati o sul ruolo dei Paesi neo-ricchi come l’Arabia Saudita, che per non sbagliare dice no a tutto, o la Cina, che continua a fare il pesce in barile, fingendo di non sapere che ha già inquinato piu di quanto abbiano fatto nella loro storia tutti i 27 Paesi dell’Ue messi insieme. «Inaccettabile» commenta il commissario al Clima Wopke Hoekstra, dietro cui si fa scudo mezza Europa, Italia compresa. «Negoziamo sul nulla», ribatte la ministra della Colombia. I giornalisti veterani rimpiangono negoziatori carismatici (e infaticabili) come l’olandese Frans Timmermans o la strana coppia di amici-nemici John Kerry (Usa) e Xie Zhenhua (Cina), che ogni giorno regalavano comunque un titolo.
Nel vuoto pneumatico di questa Cop, la presidenza azera offre a gruppi ristretti di reporter una gita nella «Baku green». Prima fermata, il museo dei pionieri del petrolio venuti dalla Svezia (sic): i fratelli Nobel, proprio la famiglia del premio più ambito dei nostri tempi. Tra cimeli e foto d’epoca, la guida racconta la nostalgia della «Città nera», dove nel XX secolo i Rothschild ammassarono un’immensa fortuna con il cherosene che illuminava le case. «Ma ora siamo impegnati a diventare “verdi”», assicura ripetendo il nuovo mantra del governo.
Contraddizioni d’Azerbaigian, piccolo Stato caucasico fedele a Mosca, che con la Russia sotto sanzione è diventato il principale fornitore di gas all’Europa. Esporta l’80% delle sue fonti fossili, che il ventennale presidente Ilham Aliyev ama descrivere come un «dono di Dio», e pianifica di aumentare la produzione per esaudire le richieste dell’Ue, che vuole importare 20 miliardi di metri cubi di gas azero all’anno entro il 2027. In casa propria, però, Aliyev punta sul «green» e promette di generare il 40% del fabbisogno energetico nazionale con le rinnovabili entro il 2030.
Dopo una tappa al «porto ecosostenibile di Baku», il tour finisce così a 60 chilometri dalla capitale, nel deserto delle steppe dove sorge la «solar city» di Garadagh. «È la più grande centrale fotovoltaica della regione del Caspio», spiega il manager Kamil Manafov. «Produce 230 MW, che forniscono energia pulita a 110.000 case e tolgono dall’atmosfera 200.000 tonnellate di CO2. E ci espanderemo ancora sui terreni vicini, dove prima si cercava il petrolio». Presto sorgerà un’altra centrale da 1 gigawatt, un po’ più lontano, ribattezzata il «Megaproject». Il tutto è proprietà di Masdar, società di energia rinnovabile degli Emirati Arabi Uniti, cui il governo azero ha ceduto i terreni per 23 anni. Perché tra petro-Stati si collabora meglio. Magari prendendo a modello la Norvegia, che trivella senza sosta il Mar Nero ma in patria è capofila della transizione verde.