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 2024  novembre 21 Giovedì calendario

Lettere private di Primo Levi

L’edizione tedesca di Se questo è un uomo di Primo Levi uscì nel 1961 per l’editore Fischer, con il titolo (traduzione quasi letterale di quello italiano, ma con l’interrogativa in forma diretta) Ist das ein Mensch?
A differenza di quella francese (la prima del 1961; una seconda, pubblicata solo pochi mesi dopo la morte di Levi, corresse gravi lacune e errori) e di quella inglese, sulle quali Levi espresse forte delusione, la tedesca fu “autorizzata”, e concordata passo passo con il traduttore Heinz Riedt, con il quale il chimico e scrittore torinese ebbe un lungo, fruttuoso carteggio, ora pubblicato nella collana Letture di Einaudi (Primo Levi. Il carteggio con Heinz Riedt, 415 pagg., 23 euro). Il pregio del libro sta nel raccontare da vicino l’uomo Levi, di là dal santino della memoria e delle celebrazioni (del cui eccesso lo stesso Levi diffidava, vedendolo come l’altra faccia dell’oblio), con tutte le sue stizze, le insofferenze, le piccole, umane meschinità rispetto ai guadagni dei libri, le beghe contrattuali, i diritti di sfruttamento teatrali, televisivi o cinematografici, le simpatie e le antipatie verso le figure del mondo letterario ed editoriale, nel quale si muoveva oscillando tra il disorientamento e la tentazione di “piantare una grana”.
Le lettere ci offrono preziosi spiragli sulle sue preferenze: tra i suoi contemporanei, ammirava Stefano D’Arrigo e la vulcanica prosa di Horcynus Orca (benché così distante dalla sua linea, opposta, di ricerca della “clarté”), di Calvino salvava solo Il sentiero dei nidi di ragno che, insieme con Una questione privata di Fenoglio (del quale non amava, invece, i racconti di Un giorno di fuoco) giudica «i soli due libri partigiani italiani privi di retorica nazionalistica e di partito». Inappellabile invece il giudizio su Il mondo è quello che è, commedia di Moravia definita senza mezzi termini “porcheria”, mentre quando Riedt menziona Paura della libertà del suo omonimo Carlo Levi, risponde di considerarlo “un libro non molto felice”. In una lettera del luglio 1965 (l’epistolario copre l’arco temporale 1959-1968) Levi, come gli accade di rado per gli scrittori italiani contemporanei, si entusiasma per I piccoli maestri di Luigi Meneghello che era uscito da poco: «A me è piaciuto eccezionalmente, e continuo a regalarne copie a tutti gli amici che le accettano e anche agli altri». I giudizi di Riedt – traduttore anche di Calvino, studioso di Goldoni – ci interessano di meno, ma dimostrano comunque la notevole sintonia tra lui e Levi, il quale tenterà, invano, di fargli volgere in tedesco anche La tregua, affidata invece, per ragioni contrattuali, ad altri traduttori definiti “schiappini”. Ma non c’è dubbio che il contenuto più interessante del libro è il perno della vita e della morte di Primo Levi, cioè Auschwitz.
L’ESPERIENZA DEL LAGER
In queste lettere se ne parla in un modo inedito, cioè privato, personale ma non per questo meno toccante o atroce di come avviene nei libri “ufficiali”. Si menziona il dottor Pannwitz, che appare nel capitolo Esame di chimica di Se questo è un uomo, il quale ebbe il potere – l’arbitrio – di decidere della vita o della morte del giovane prigioniero. Al momento di tradurre il libro, Levi propone a Riedt di cambiare alcuni nomi, per non urtare persone ancora in vita, ma per Pannwitz, che «siede formidabilmente dietro una complicata scrivania» (Levi rivela che l’immagine gli era stata ispirata dal dantesco «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia»), invita a non cambiarlo: «Lascerei invece intatto il nome (vero) del Dr. Pannwitz: non chiederei di meglio che mi citasse per calunnia!» Siamo nel 1960, quindici anni dopo la liberazione dal Lager da parte dei soldati sovietici, ma in Levi è ben vivo quella che lui stesso, in una lettera di sette anni dopo, chiamerà «la componente Conte di Montecristo», in eterno conflitto «con la mia componente uomo civile».
Un dissidio, o una dissociazione, che riflette quella tra lo scrittore e il chimico, e se in quest’ultima veste Levi si reca più volte in Germania, a volte accompagnato dal capo della ditta di vernici per cui fu impiegato, svolgendo normalmente la sua professione, è lo scrittore che si assume la responsabilità, dolorosa, di andare sotto la superficie “noiosa”, come la qualifica Levi, delle cose: «Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è, ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere. So, anzi, da quando ho imparato a conoscere Thomas Mann, da quando ho imparato un po’ di tedesco (e l’ho imparato in Lager!), che in Germania c’è qualcosa che vale, che la Germania, oggi dormiente, è gravida, è un vivaio, è insieme un pericolo e una speranza per l’Europa. Ma non posso dire di capire i tedeschi». Infine, colpiscono i giudizi a caldo dati da Levi agli accadimenti storici, dalla costruzione del muro di Berlino, alle elezioni in Italia e in Germania, alla Guerra dei sei giorni, nei quali si lascia andare a sfoghi e invettive ben lontani dal razionalismo che gli faceva scudo nelle uscite pubbliche. Un libro decisivo per entrare nei meandri reconditi di un grande spirito.