il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2024
Baku, come aggirare gli impegni green
L’attivismo è creativo, qui a Baku: nell’ingresso della sede della Cop29, il vertice Onu sul clima che sta arrivando al suo termine, c’è un palchetto su cui un uomo mascherato e uno travestito da dinosauro assegnano il premio “Fossil of the day” e il “Fossil of the year”. Alle sue spalle c’è il logo di un dinosauro stilizzato che sputa fuoco, attorno a lui centinaia di persone pronte a scoprire chi abbia vinto la coppa quotidiana, che è a forma di dinosauro (richiamo a Jurassic Park). Ieri è toccato alla Svizzera e anche all’Unione europea, ma il podio dell’anno riporta tre incoronati: il “G7” al primo posto, l’Italia al secondo posto, la Russia al terzo.
Si ammazza così il tempo in attesa della prima bozza del testo sui nuovi obiettivi globali per contrastare il cambiamento climatico. La Cop si chiude venerdì e il tempo per i negoziati è poco. Il testo definitivo sarà l’impegno che tutti dovranno cercare di rispettare in termini di finanziamenti da destinare ai Paesi in via di sviluppo per permettere loro di proseguire nelle politiche di mitigazione e adattamento al disastro ambientale causato dai paesi avanzati e dai grandi inquinatori. Un aiuto concreto, certo, ma anche una sorta di arma di distrazione di massa. I cento miliardi all’anno del target finora fissato non sono stati praticamente quasi mai raggiunti e i Paesi in via di sviluppo ora ne chiedono almeno mille. Inoltre, gli obiettivi sulle emissioni, sullo stop alle fonti fossili, sulla limitazione dell’aumento della temperatura e sull’energia sono praticamente assenti nella discussione. E parte dell’imbarazzo che ostacola i lavori è, come al solito, sul linguaggio da usare per non annullare brutalmente quanto era stato stabilito a Dubai l’anno scorso (l’uscita graduale dalle fossili) ma facendolo sul filo della retorica.
Il testo, però, deve però necessariamente contenere un numero, ovvero il nuovo target di fondi. Mentre il giornale va in stampa, non è ancora stata pubblicata la bozza, consegnata a mezzanotte ora locale, ma ieri sul tavolo c’erano tre ipotesi: 900 miliardi di dollari, 600 miliardi di dollari e 440 miliardi di dollari l’anno. Altro nodo: quanto di questo debba essere a fondo perduto, quanto in prestiti a tassi d’interesse agevolati, quanto dovrebbe arrivare da fondi privati. I due aspetti, quantità e modalità, sono legati perché permettono ai Paesi di essere – o meglio di apparire – più o meno generosi. Un altro punto di attrito riguarda la definizione di Paese in via di sviluppo, dato che si annoverano come tali anche Cina e India, che sono tra i principali inquinatori e che quindi per una mera dinamica di compensazione dovrebbero più pagare che ricevere. Difficile che questo avvenga, tanto più considerando la debolezza delle aspirazioni e l’opposizione dei paesi africani ad allargare la platea. D’altronde il contesto è quello che è. Basti pensare che il segretario generale dell’OPEC, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, ha pensato bene di dire al summit che il petrolio greggio e il gas naturale sono un “dono di Dio”. Niente di male: ha solo riecheggiato le parole del presidente dell’Azerbaigian, che lo aveva detto nel suo discorso di apertura