la Repubblica, 20 novembre 2024
Non cancellate il futuro dei musei
L’Egizio di Torino festeggia i duecento anni dalla fondazione E il suo direttore ragiona su come gli spazi dedicati all’arte debbano diventare nuovi luoghi di confronto e di inclusione
Nelle tensioni verificatesi negli ultimi anni, con localismi e nazionalismi crescenti, a volte anche platealmente intolleranti, i musei sono chiamati a rompere quel legame identitario fra nazione e patrimonio, a dare uno sguardo di ampio respiro, a coinvolgere sociologi, antropologi e filosofi per promuovere linee di ricerca che sappiano mettere al centro il rapporto fra l’eredità culturale, i diritti umani, la libertà di movimento e la partecipazione. Sono argomenti che richiedono approfondimenti seri, e che spesso non riescono a fornire una risposta univoca. Questa nuova diaspora può sembrare, a volte, anche una scorciatoia per non affrontare questioni vitali nella museologia contemporanea quali la decolonizzazione, il dialogo con i paesi di origine, la restituzione. Usando come alibi il fatto che le popolazioni di nuovo insediamento debbano poter fruire della loro cultura materiale, si potrebbe cercare di ritardare la dovuta analisi sulla provenienza degli artefatti, sulla trasparenza relativa alle date e alle modalità di acquisizione delle collezioni. Una ricerca seria che prenda in considerazione tutti gli aspetti della biografia dell’oggetto e non tenda a fornire semplicistiche riletture del passato, ma sappia affrontare i temi dell’ingiustizia, dell’illecita appropriazione di reperti, contestualizzando quanto avvenuto in epoche relativamente vicine a noi, deve avere un ruolo assolutamente primario nell’agenda culturale dei musei contemporanei.
Lo sforzo a cui siamo chiamati adesso è quello di identificare le eredità culturali e le voci che il colonialismo ha escluso, e dare spazio a tradizioni intellettuali sistematicamente delegittimate dall’atteggiamento coloniale. Il passato si ripresenta a noi sotto forma di testi e di oggetti di varie dimensioni, da microscopici a macroscopici. Queste testimonianze sono tasselli di un grande mosaico, del quale però la maggior parte è andata perduta. Il modo in cui non solo interpretiamo ma anche raccordiamo tra loro le testimonianze del passato non può e non deve essere univoco.
Un esempio di queste difficoltà ci è fornito dalla cancel culture, che ha recentemente messo nel mirino lo studio dei classici: un’interpretazione del passato attraverso uno sguardo assoluto incardinato nel presente, paradossalmente, fallisce proprio in ciò che la cancel culture rivendica, ovvero la necessità di essere inclusivi. In un mondo che reclama spazio e attenzione per le voci e i punti di vista finora tacitati dalla narrazione dominante, è curioso che alcuni pretendano di esercitare sul passato lo stesso potere di censura che si intende contestare. La definizione di sé attraverso l’altro èun tema che ricorre nella storia dell’umanità. Erodoto, esponente di una cultura che definiva “barbare” tutte le popolazioni non greche, riporta che «gli Egizi rifuggono dall’adottare usi greci, o meglio per dirla intera, costumi di qualunque altro popolo» (Erodoto, Storie 2.91).
Se un dialogo tra contemporanei avviene su un piano paritario, in cui ognuno dei partecipanti contribuisce a posizionare un tassello del ragionamento (non a caso il dialogo è la forma scelta da Platone per discutere di filosofia), il dialogo che possiamo avviare con la storia è di natura differente. In questo caso esiste un’asimmetria da colmare, in quanto necessita di un lavoro di decifrazione non semplice, da operare su fonti che sono altrimenti mute.
Siamo dunque noi a dover dare voce a ciò che resta del passato: in un certo senso, in tal modo entrando in dialogo con noi stessi, ovvero con ciò che noi “vediamo”, ovvero scegliamo di vedere “del” e “nel” passato. È evidente che esisteranno elementi di continuità ma anche elementi di profonda discontinuità tra passato e presente, ed è proprio lungo questa faglia che può prendere vita laphronesis platonica, ovvero la discussione costruttiva ispirata da un contrasto di posizioni.
Il rapporto costruttivo col passato ci può dunque insegnare qualcosa di noi stessi in due modi. Innanzitutto perché chi ci ha preceduti rappresenta le pagine precedenti del libro della storia dell’umanità che anche noi stiamo contribuendo a scrivere, alle quali quindi siamo debitori e profondamente connessi, anche se talvolta inconsapevolmente. E poi perché il dialogo con il passato è in realtà un confronto tra la nostra percezione del presente e del passato. Divenire consapevoli della relatività della visione contemporanea può rappresentare un primo passo per avvicinarci al passato con la stessa cura e la stessa attenzione che un giorno speriamo venga dedicata alle nostre azioni e ai nostri pensieri, quando la ruota del tempo ci avrà reso passato di un nuovo presente. Il luogo deputato a ospitare il dialogo con il passato, anche in forma di phronesis, non può che essere il museo.
Riprendendo le considerazioni dell’antropologo Jean-Loup Amselle, possiamo trarre alcune indicazioni per quella che si potrebbe definire una nuova antropologia museale: il museo che diventa metodo, spazio aperto di confronto, che pone al centro la prosopografia e cerca di mettere in relazione le vite di coloro che sono stati con quelle dei visitatori contemporanei. Un luogo in cui comprendere appieno potenziale e limiti della conoscenza per sineddoche, e che ci ricordi sempre, in ogni momento, che il tempo, come scrisse Platone, è immagine in movimento dell’eternità.