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 2024  novembre 20 Mercoledì calendario

Intervista a Francesca Manni



La procuratrice generale di Milano: «Zuncheddu alla fine del processo di revisione mi ha portato le paste sarde». «Tarfusser? Quando è andato in pensione non mi ha nemmeno salutata»
Francesca Nanni: «A 28 anni salvai un uomo rapito e anche la mia carriera di pm. La revisione su Olindo e Rosa? Ero contraria, non ci ho dormito»
Francesca Nanni, procuratrice generale di Milano (Imagoeconomica)
Procuratore o procuratrice?
«Ho una leggerissima preferenza per procuratore. Dopodiché procuratrice va benissimo, come pure dottoressa. Qualche anziano avvocato mi chiama signora, e va bene anche quello. Non è il titolo che conta, è la sostanza».
In cosa pensa di aver portato il femminile nel suo lavoro?
«Forse nella concretezza, nel piglio pratico».
Francesca Nanni, 64 anni, ligure per caso (è nata a Millesimo da mamma toscana e papà bolognese), ha accumulato un bel po’ di primati. È stata il primo sostituto procuratore donna a Sanremo, la prima sostituta a Genova, prima procuratrice capo a Cuneo, prima procuratrice generale a Cagliari. E, da gennaio 2021, prima procuratrice generale a Milano. Ci incontriamo nello stesso ufficio che fu di Francesco Saverio Borrelli, al quale lei ha reso omaggio nel discorso di insediamento.
Primo incarico?
«Nel 1988, a Sanremo: avevo 28 anni. Al primo “turno urgenza” ci fu un sequestro di persona in Calabria».
Iniziò con il botto!
«Erano le dieci di sera, stavo guardando L’onore dei Prizzi in tv, me lo ricorderò finché campo. Mi telefona il commissario Sidero, agente anziano: avevano rapito Claudio Marzocco. Ai tempi non c’era la Direzione distrettuale antimafia: oggi i sequestri sono di competenza della Dda. Non c’era nemmeno la Dia, il coordinamento delle forze di polizia dovevo farlo io. Ancora non c’erano disposizioni sul blocco dei beni, così scrissi io un provvedimento che non mi fece amare dai familiari».
Quanto durò il sequestro?
«Circa due settimane. Dopo la liberazione, a Platì, volai in Calabria per ascoltarlo subito, partendo da Nizza. E riuscimmo a fermare un carceriere».
Be’, fece tutto bene.
«Se non fosse tornato a casa non so se avrei continuato a fare il pubblico ministero».
Ha sempre voluto fare il magistrato?
«Nell’ordine, volevo fare la pianista, poi l’astronoma, poi la psichiatra. Dopo, quando mi sono iscritta a Giurisprudenza, ho sentito che facendo il magistrato potevo avere almeno l’illusione di poter essere utile agli altri».
A Genova è stata 18 anni. Un caso eclatante?
«In realtà mi viene in mente un errore eclatante».
Ecco: un maschio avrebbe risposto con un successo. Pensavo al caso Barillà.
«È importante imparare dagli errori. Ai tempi mi stavo occupando di un’associazione per delinquere di albanesi dediti allo sfruttamento della prostituzione. Il processo è stato lungo e complicato».
Quale fu l’errore?
«Il procedimento si basava sulle dichiarazioni di due ragazze. Una, con una memoria eccellente, preziosissima, era stata violentata, minacciata, fatta prostituire. Le spiegai che doveva assolutamente dire la verità; in caso di dubbi era meglio se diceva che non ricordava. Lei riferì che durante un omicidio era presente un uomo, per cui la difesa produsse un certificato di detenzione all’estero. Le lascio immaginare la mia reazione».
Se la prese con la teste?
«Non mi vergogno di dire che andai dal mio capo e mi misi a piangere. L’errore era stato mio. Non ero riuscita a responsabilizzare in maniera adeguata la mia testimone».
E non le chiese perché aveva dichiarato il falso?
«Sì. Mi rispose che lei lo considerava il responsabile morale dell’omicidio. Quell’episodio mi ha insegnato a essere ancora più scrupolosa negli accertamenti».
A Genova ottenne anche la revisione del processo di Daniele Barillà, arrestato l’11 febbraio 1992 per uno scambio di persona, scarcerato il 12 luglio 1999 e assolto il 17 luglio 2000 per non aver commesso il fatto.
«Stavo seguendo un’indagine che sfiorava il suo caso, così venne da me e mi chiese dieci minuti per spiegarmi perché era innocente, cosa che dicono tutti. Mi colpì la calma. La sua fortuna fu che conoscevo nei minimi dettagli le vicende alle quali faceva riferimento e tutto si incastrava perfettamente. Il giorno dopo andai dal mio capo e gli espressi i miei dubbi. Lui, con il suo accento sardo, mi disse: “Franceschina cara, abbiamo già tante cose da fare per metterli dentro, e tu vuoi lavorare anche per tirarli fuori? Ma lascialo fare al difensore!”».
Dalla vicenda fu tratta la fiction L’uomo sbagliato, con Beppe Fiorello.
«Con la mia fantastica segretaria Nora Battistini, che purtroppo non c’è più, per scherzo dicevamo che la mia parte doveva farla Nancy Brilli. Invece il ruolo fu assegnato ad Antonia Liskova, che fu bravissima. Anche se nella sceneggiatura si presero una licenza: nella fiction, Liskova aveva fatto condannare Barillà e poi lo fece scarcerare».
Da Genova a Cuneo, procuratrice capo per otto anni. Qui quale caso ricorda?
«L’omicidio di un ex collaboratore di giustizia di origini calabresi, una bella indagine svolta dai carabinieri e la testimonianza di un uomo accusato di omicidio in concorso grazie alla quale poi fu condannato il responsabile. Lo convinsi io a collaborare ed ebbe una riduzione di pena. Dopo, l’ho incontrato di nuovo in carcere, dove ha seguito corsi di cucina e ho mangiato quello che aveva preparato».
A Cagliari è stata la prima procuratrice generale. È rimasta due anni. Giusto in tempo per ottenere la revisione del processo di Beniamino Zuncheddu.
«Devo ammettere che sono stati mesi durissimi per me, perché hanno coinciso con la fine del mio matrimonio. Occuparmi di Zuncheddu mi ha permesso di ridimensionare i miei problemi».
Walter Veltroni sul Corriere l’ha definita «una grande magistrata, assetata solo di verità e giustizia».
«Come tutti i magistrati, ho fatto il giuramento alla Repubblica. Ma io ne ho fatto un altro alla verità. Fu l’avvocato di Zuncheddu, Mario Trogu, a contattarmi nell’estate del 2019. Mi colpì questo detenuto che dopo 26 anni di carcere, pur potendo beneficiare della libertà condizionale, rifiutava di dichiararsi colpevole. Quando incontrai Luigi Pinna, il sopravvissuto alla strage per la quale era stato condannato Zuncheddu, che con la sua testimonianza lo aveva inchiodato, gli dissi: “Lei, Pinna, vive male. E io e lei sappiamo perché”. Annuì con la testa. Poi in auto con la moglie si tradì, e con quella intercettazione ottenemmo la riapertura del dibattimento».
Ha rivisto Zuncheddu?
«Prima della scarcerazione non l’avevo mai incontrato: non ne avevo bisogno, sapevo tutto dalle carte. Dopo, è venuto con la sorella qui a Milano e mi hanno portato un cabaret di ottime paste sarde».
C’è un’altra revisione, partita dalla Procura di Milano, che invece non è stata accolta. È quella del processo di Olindo e Rosa: la strage di Erba.
«Mi hanno dato ragione su tutto...».
A presentarla fu il suo sostituto Cuno Tarfusser.
«Mi ha bypassato, innanzitutto autoassegnandosi un fascicolo non destinato a lui; e ha quindi sposato in pieno la tesi del difensore. Ho letto le carte, non condividevo la richiesta, ma ho ritenuto di non bloccarla: spettava alla Corte di Appello di Brescia. Non è stata una decisione facile, non ci ho dormito».
Quando Tarfusser è andato in pensione l’ha salutata?
«No».
Ha la scorta. La limita?
«Ho la tutela. È un vantaggio, dovendomi muovere velocemente fra Prefettura, Questura e Tribunale. La limitazione più grande non è tanto dover essere sempre in compagnia di qualcuno, ma dover programmare in anticipo i miei movimenti. Di carattere io amo improvvisare».
Non ha figli. Le dispiace?
«Forse è stata una decisione più del mio ex marito che mia. Ma l’ho condivisa».
Ora c’è qualcuno con lei?
«Sì, da due anni ho un compagno. L’ho conosciuto in palestra, dove mi vengono le idee migliori sull’organizzazione del lavoro in ufficio!».