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 2024  novembre 20 Mercoledì calendario

Una lectio sull’amore

Nel Nuovo Testamento la radice del verbo greco che indica l’amore – agape – risuona ben 320 volte. Dovete fidarvi perché non le ho contate io, ma il cardinal Ravasi nel suo «Alfabeto di Dio». Duemila anni dopo, Amore è la parola al mondo più ricercata su Google, con diciotto miliardi di risultati.
M a che cos’è questo amore, di cui parliamo così tanto e sappiamo così poco? Il legame emotivo che unisce due persone, almeno fino a quando la loro relazione produce l’ormone della dopamina, cioè in media per circa tre anni? O la suprema legge dell’universo, di cui quel legame emotivo è solo una delle tante manifestazioni? Per rispondere a un quesito del genere non basta un filosofo qualsiasi. Ce ne vuole uno che sia anche un artista. Ci vuole Platone. Egli comprese che all’amore non ci si poteva arrivare con un ragionamento, ma solo con l’intuizione. E fece ricorso all’unico strumento possibile: il mito.
Il mito è come una parabola, o una favola. Ha due livelli di comprensione. Le parole che usa si fermano al nostro cervello, ma le immagini che evoca scendono fino alla nostra anima. Il mito della nascita dell’amore si trova nel Simposio. Dello stesso dialogo ne ricordiamo spesso un altro, quello dell’anima gemella, che però Platone racconta proprio per poterlo smentire. Non è vero, dice, che l’amore consiste nel ricongiungersi alla nostra metà perduta. L’amore è molto di più. E per convincerci, arriva a mostrarcene la carta di identità. L’amore, afferma il mito, fu concepito sul Monte Olimpo lo stesso giorno in cui nacque Afrodite, la dea della Bellezza, durante il banchetto allestito per il lieto evento. Sua madre si chiama Penìa, Povertà, e suo padre Poros, che potremmo tradurre Risorsa o Espediente, anche se oggi un laureato in fisica definirebbe i genitori dell’amore con nomi più scientifici: Materia e Antimateria.
Povertà, cioè la materia, è la nostra condizione esistenziale. Ma in noi c’è anche un principio antitetico alla materia, un principio di attrazione. Nel mito questo impulso è incarnato da Poros e si addormenta a metà della festa, ubriaco di nettare, in un angolo dei giardini di Zeus. Povertà lo vede, gli si sdraia accanto e nove mesi dopo viene alla luce un bel bambino: Eros. Il quale, con simili genitori, non può che avere il carattere descritto da Platone in una delle pagine più formidabili della letteratura mondiale. «L’amore è tutt’altro che bello e delicato. L’amore è duro, ispido, scalzo e senza casa. Si sdraia sempre per terra, senza coperte, e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada. Talora fiorisce e vive, talora muore, ma poi torna in vita. E quel che si procura sempre gli sfugge di mano, sicché l’amore non è mai né povero né ricco».
Né povero né ricco. Quando ce l’hai, temi di perderlo. E quando lo perdi, brami per riaverlo. Ma cos’è dunque, questa «dolce amara indomabile belva», come la chiamava la poetessa Saffo? Chi pensa che l’amore sia bello e delicato commette l’errore di attribuirgli le caratteristiche dell’amato. Invece Platone è il primo, almeno in Occidente, a rivelarci che l’amore non si trova nell’amato, ma nell’amante. Da ragazzo ero convintissimo del contrario. Pensavo che l’amore risiedesse nella persona che amavo e coincidesse con l’appagamento del mio desiderio: essere amato da lei. Troppe canzoni e forse anche troppe paure mi avevano portato fuori strada. Eppure, non riuscivo a espellere il tarlo che mi rodeva dentro: se l’essere amati era la condizione per essere felici, perché, quando ero amato, non ero felice? Perché non riuscivo a sognare in grande, a credere nell’impossibile, a immaginare un mondo migliore? Perché sentivo di tradire la missione di ogni essere umano che, come scriveva George Bernard Shaw, «consiste nell’essere una forza della natura e non un grumo agitato di guai e di rancori che si lamenta e recrimina perché l’universo non si dedica a renderlo felice»?
La risposta arriva da Platone. Poiché Eros è colui o colei che ama, ciascuno di noi non è in armonia con sé stesso e con gli altri quando riceve l’amore, ma solo quando ne dà. Senza pretendere nulla in cambio. Il Vangelo lo chiama agàpe, San Paolo carità. Se dovessimo sintetizzarlo in un tweet: amore è quel che ego non è. Quindi non è un acquisto, ma una cessione. Non è possesso, ma libertà. Chi di noi non lo ha provato almeno una volta sulla propria pelle? Quando ami davvero, esci da te stesso e ti sintonizzi con un’altra dimensione, quella dell’eternità. L’amore non ha un perché. L’amore è il perché. E per una ragione molto semplice: come cantava Franco Battiato, tutto l’universo obbedisce all’amore.
Ma non è finita. Platone ha ancora in serbo un colpo di scena. Ogni uomo, dice, aspira a essere immortale. Non importa se a parole afferma che non gliene importa nulla. Il suo inconscio è irresistibilmente attratto dal desiderio di lasciare una traccia del proprio passaggio. Molti ci provano con l’odio o con la rabbia e possono anche riuscirci, ma si tratta di un successo effimero e comunque pagato a caro prezzo: ansia e depressione. Solo l’amore permette di diventare immortali in modo naturale. Come? Lasciamoci prendere per mano da Platone. Ricordate quando, secondo il mito, fu concepito l’amore? Nel giorno della nascita di Afrodite, dea della Bellezza. Significa che ogni volta che vediamo la Bellezza in una persona, in un fenomeno della natura, in un’opera d’arte o in un’idea, noi concepiamo amore. Ci eccitiamo. Ed eccitandoci, ci viene voglia di generare e partorire qualcosa che ci sopravviva. Un figlio. Naturale o spirituale.
Ora, su che cosa sia un figlio naturale, più o meno, ci intendiamo tutti. Ma un figlio spirituale? Non esiste solo la fecondità del corpo, spiega Platone. Anche l’anima, proprio come il corpo, può eccitarsi davanti a ciò che sente bello e provare la pulsione irresistibile di procreare qualcosa che le sopravviva. L’amore è dunque un’energia che si impossessa dell’amante e si esprime in una tensione creativa. Se invade il corpo, porterà alla nascita di una creatura in carne e ossa. Ma se invade l’anima, genererà delle opere.
Di queste opere generate dall’amore non esiste un catalogo completo. Ciascuno può apportarvi il suo contributo originale. Di sicuro il catalogo non si esaurisce con le creazioni artistiche, ma tocca ogni campo della conoscenza, dal più umile al più eccelso, perché «umile» ed «eccelso» sono giudizi umani, mentre l’universo li considera identici, dal momento che tutti contribuiscono al suo funzionamento. Tornano alla mente le parole di Hugo Cabret nel film di Martin Scorsese: «Le macchine hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Se il mondo è una grande macchina, io devo essere qui per qualche motivo. E anche tu!» Tutti abbiamo un compito da svolgere, in questa vita. E tutti abbiamo un talento che ci è stato dato a quello scopo. Il mestiere di vivere consiste nel trovare il proprio talento. Riconoscerlo e poi accenderlo con il fuoco della passione.
Che cosa sta cercando di dirci Platone? Che soltanto chi ama crea. Un messaggio semplice e rivoluzionario, più che mai in un periodo come questo, dominato da ansie, paure e torcicolli emotivi, in cui pensiamo che il meglio sia alle nostre spalle e non riusciamo ad avere fiducia nel futuro perché non ne abbiamo più in noi stessi. Ma contro tutte le paure, i rimpianti e i rancori, si erge impavida la morale di questa favola: ogni essere umano viene al mondo per creare qualcosa attraverso l’amore. Non resta che far girare la voce.