La Stampa, 19 novembre 2024
Paul Auster «Ero un bimbo con la pistola»
Non ho mai posseduto un’arma da fuoco. Almeno non una vera, ma per due o tre anni, una volta smessi i pannolini, ho girato con una rivoltella a sei colpi appesa al fianco. Ero un texano, anche se vivevo nella periferia di Newark, New Jersey, perché nei primi anni Cinquanta il Selvaggio West era ovunque, e infinite schiere di bambini americani sfoggiavano un cappello da cowboy e una comune pistola giocattolo riposta dentro una fondina di finto cuoio. A volte si inseriva un dischetto di capsule detonanti davanti al tamburo della pistola per imitare l’esplosione di un vero proiettile ogni volta che prendevamo la mira, sparavamo ed eliminavamo l’ennesimo cattivo dalla faccia della Terra. In genere però bastava soltanto premere il grilletto e urlare: Bang, bang, sei morto!
Fonte di queste fantasie era la televisione, un fenomeno nuovo che cominciò a raggiungere un gran numero di persone proprio all’epoca della mia nascita (1947), e siccome si dà il caso che mio padre fosse il proprietario di un negozio di elettrodomestici che trattava parecchie marche di televisori, ho il privilegio di essere uno dei primi al mondo ad aver vissuto con un apparecchio televisivo dal giorno in cui sono nato. Hopalong Cassidy e Il cavaliere solitario sono i due telefilm che ricordo meglio, ma quando ancora non andavo a scuola il palinsesto pomeridiano prevedeva un bombardamento quotidiano di western di serie B degli anni Trenta e dei primi Quaranta, in particolare quelli interpretati dal prestante e atletico Buster Crabbe e dal suo vecchio aiutante, Al St. John. Quei film e telefilm erano vere e proprie fesserie, ma a tre, quattro e cinque anni ero troppo piccolo per capirlo, e un mondo diviso tra uomini in cappello bianco e uomini in cappello nero si prestava benissimo alle limitate capacità del mio intelletto imberbe e primitivo. I miei eroi erano dei bonari tontoloni, che si arrabbiavano di rado, parlavano lo stretto indispensabile ed erano timidi con le donne, ma sapevano distinguere il bene dal male, e sconfiggevano i malfattori a suon di pugni e pistolettate ogni volta che un ranch o una mandria di bestiame o la sicurezza del paesello erano in pericolo. In quelle storie tutti giravano armati, sia gli eroi sia i malvagi, ma solo l’arma dell’eroe era al servizio del bene e della giustizia, e siccome io non mi immaginavo nei panni del malvagio ma in quelli dell’eroe, la sei colpi giocattolo che portavo alla cintura era un segno della mia stessa bontà e virtú, prova tangibile della mia idealistica e fittizia virilità. Senza la pistola non sarei stato un eroe ma un nessuno, un semplice bambino. In quegli anni volevo tanto un cavallo, ma non mi sfiorò mai il desiderio di possedere una vera arma e nemmeno di sparare. Quando alla fine me ne capitò l’occasione, avevo nove o dieci anni e l’infantile paese dei sogni con i cowboy della tivú mi stava già stretto da tempo. Ormai ero un atleta, con una particolare adorazione per il baseball, ma anche un lettore di libri e sporadico autore di poesie a dir poco orrende, un ragazzino che arrancava sul tortuoso cammino della crescita. Nel frattempo i miei genitori mi mandarono in un centro estivo nel New Hampshire, dove oltre al baseball si praticavano nuoto, canoa, tennis, tiro con l’arco, equitazione e un paio di volte a settimana ci si esercitava al poligono di tiro, dove fui iniziato al piacere di imparare a maneggiare un fucile calibro 22 e a sparare raffiche di proiettili su un bersaglio di carta fissa to a una parete venticinque o cinquanta metri piú in là (non ricordo la distanza esatta, ma all’epoca mi sembrava perfetta: né troppo vicino né troppo lontano). L’istruttore sapeva il fatto suo, e ho un ricordo vivissimo di come mi insegnava a posizionare le mani quando impugnavo il fucile, ad allineare il bersaglio con il mirino all’estremità della canna, a respirare nel modo giusto quando ci si prepara a sparare, a tirare indie tro il grilletto con un gesto lento e fluido per sprigionare il proiettile dal la canna e farlo schizzare in aria. A quei tempi avevo una vista ottima e imparai alla svelta, prima in posizione prona, da cui arrivai a totalizzare quarantasette punti sul massimo di cinquanta previsti per i cinque colpi di ogni giro, poi in posizione seduta, che prevedeva tutto un nuovo repertorio di tecniche ma, proprio quando stavo per passare alla posizione in ginocchio, l’estate finí e finí anche la mia carriera di tiratore scelto. I miei genitori decisero che quel centro estivo era troppo lontano da ca sa e l’estate seguente mi mandarono in un altro molto piú vicino, dove il tiro al bersaglio non rientrava nelle attività offerte. Una piccola delusione, forse, ma per il resto il secondo centro estivo superava di gran lunga il primo e non me la presi piú di tanto. Fatto sta che, a oltre sessant’anni di distanza, ricordo ancora la piacevole sensazione di centrare il bersaglio, accompagnata da un benessere simile a quello che provavo ogni volta che schizzavo via dalla mia posizione di interbase per andare a ricevere un passaggio dell’esterno sinistro e poi giravo su me stesso per passare la palla al ricevitore mentre il corridore lanciato a tutta birra già toccava la terza puntando a casa base. Sentivo un legame tra me e qualcuno o qualcosa a grande distanza da me, e lanciare una palla o sparare un proiettile e colpire il bersaglio in nome di un obiettivo predeterminato – evitare che l’avversario attraversasse il piatto in corsa, totalizzare un punteggio alto al poligono di tiro – produceva un profondo e ardente senso di soddisfazione e di trionfo. Ciò che contava era il legame, e che lo strumento di quel legame fosse una palla o un proiettile, la sensazione era la stessa.