Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  novembre 19 Martedì calendario

Gli “altri” che fecero la Resistenza

Ve n’è poca traccia nella memoria collettiva, dimenticati per distrazione, pregiudizio o convenienza. Anche la storiografia li ha lungamente rimossi facendosene carico soprattutto nell’ultimo decennio. Ora c’è una nuova generazione di studiosi che, nel solco tracciato da Roberto Battaglia e Claudio Pavone, li ha messi al centro di agguerrite ricerche, facendo saltare per aria tutti gli steccati nazionalistici che minacciano di tornare pesantemente nella nostra storia. Perché portare sul proscenio la Resistenza italiana “meticcia”, “transnazionale”, “migrante”, ossia la partecipazione alla nostra guerra di Liberazione di partigiani di svariate nazionalità ed etnie – tra spagnoli, tedeschi, polacchi, cecoslovacchi, jugoslavi, sovietici, “mongoli”, neozelandesi, statunitensi, sudafricani, eritrei, somali, etiopi, libici, rom e sinti —significa mostrare il carattere universale e cosmopolita della lotta contro il nazifascismo, un’aspirazione e un impegno patriottico che non possono restare soffocati al chiuso di confini nazionali ma si allargano alla nozione più ampia di patria democratica. Significa anche ripensare il valore della cittadinanza e dei suoi diritti, frutto di una battaglia comune, in un Paese che ancora pone limiti al riconoscimentodell’italianità. Ottant’anni fa, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, uomini e donne nati nel Corno d’Africa non esitarono a mettere a repentaglio la propria vita per un Paese che pure li aveva ridotti al rango di sudditi coloniali, spingendoli ai margini dell’italianità. Sono tante le storie di coraggio e solidarietà per anni rimaste sotto traccia. Mohamud Abbasimbo, Sciferà Abbadica e Abbagirù Abbalagi eranoetiopi di Minna. Furono reclutati a Napoli nel maggio del 1940 per la mostra d’Oltremare nella veste di statuine esotiche, ma dopo l’inizio della guerra vennero stipati nelle baracche di legno con il nuovo status di internati. Nell’ottobre del 1943 andarono a infoltire le file del partigianato marchigiano, combattendo in quello che diventerà il battaglione “Mario”. Il contributo di molti di loro alla Resistenza tra etiopi, somali e libici – ci dicono Valerio Deplano e Matteo Petracci – fu il frutto di una scelta, non una decisione dettata dalla necessitàdi sfuggire all’arruolamento o alla coercizione. Con una presenza estesa dalla Campania al Piemonte e al Trentino.
A restituirci queste vicende dimenticate è un prezioso volume collettaneo, curato da Chiara Colombini e Carlo Greppi, che cerca di tessere i disordinati fili di un racconto complesso proprio perché frammentato, coltivato più dalla letteratura e dalle memorie locali che dalla storiografia accademica, ora meritoriamente ricomposto in una riflessione unitaria che però ammette molte lacune, fontismarrite, ricordi spezzati (Storia internazionale della Resistenza italiana,
Laterza). Un’incertezza che riguarda anche le cifre. Quanti furono i resistenti non italiani che parteciparono alla nostra guerra partigiana? La cifra oscilla tra i quindicimila e i ventimila partigiani, tra i quali è difficile trovare motivazioni comuni, perché diversissime sono le storie e la provenienza. E anche all’interno di ogni raggruppamento – sia tra i guerriglieri spagnoli cacciati da Franco alla fine dalla guerra civile o tra i disertori della Wehrmacht o tra gli Alleati prigionieri – desiderio di riscatto e volontà liberatrice si mescolano al puro istinto di sopravvivenza, a opportunismo, alla mancanza di alternative. Non tutti poi sognavano la democrazia, specie tra gli slavi o tra i sovietici di Stalin. E non è sempre una storia a lieto fine.
Gli studiosi non indulgono mai a una rappresentazione edenica di questi innesti, perché non fu facile la convivenza tra italiani e jugoslavi, nutrita da diffidenza reciproca di cui è rimasta traccia nella nostra memorialistica: i partigiani di Tito ritratti tra ipiù spietati e cinici rispetto alle ricadute sulla popolazione locale. Come fu innervato da rivalità il rapporto tra gli Alleati e gli italiani, prima nemici poi amici, quindi tanti sospetti e anche un malcelato senso di superiorità da parte di qualche soldato inglese o americano verso chi era stato il suo carceriere e ora si affannava a riscattare vent’anni di dittatura. O anche irriducibile si manifestava in principio l’ostilità dei nostri resistenti verso i disertori dell’esercito tedesco, simbolo del paese dei carnefici.
Ma sulle frequenti vicende controverse, che poi spiegano i vuoti di memoria, in questo racconto frastagliato prevale un tenace sentimento di solidarietà che fu il collante della comunità partigiana. A cominciare dalla straordinaria azione di resistenza civile a opera di una vasta massa contadina, senza la quale gli ex prigionieri alleati non avrebbero ricevuto nascondigli, cibo, cure, vestiti, mezzi di trasporto. Prove di coraggio in un Paese affamato da tre anni di guerra e sotto la minaccia costante della rappresaglia tedesca. Per chi offriva ricovero allo straniero, ci ricorda Isabella Insolvibile, le ordinanze naziste comminavano ovunque punizioni esemplari, fino alla fucilazione. Dei 17 mila prigionieri alleati salvati dalla popolazione – ma non tutti aderirono alla Resistenza – colpisce il destino fortunato di Manuel Serrano, un portoricano con cittadinanza newyorchese che poi avrebbe avuto successo nel cinema italiano al fianco di Totò. Un’aura di leggenda avvolge l’australiano Frank Jocumsen, divenuto stretto collaboratore di uno dei più importanti comandanti italiani, Cino Moscatelli: l’Australiano spaventava i fascisti solo a nominarlo. E fu per amore di una famiglia italiana che Frank Bowes diede la vita davanti a un plotone d’esecuzione: ne aveva condiviso la lotta per la giustizia sociale e imparò ad ammirare «lo zelo dei partigiani», «privi di addestramento ma pieni di audacia».
Coraggio, fuga, generosità si ritrovano nelle vicende dei quattordici ebrei stranieri riparati nelle valli di Cuneo, dove aderirono prevalentemente alle brigate di Giustizia e Libertà. Tra loro anche alcuni medici come la dottoressa polacca Bronka Halpern che avrebbe stretto amicizia con Duccio Galimberti dopo averne curato gravi ferite alle gambe. Anche in questo caso la popolazione aiutò i rifugiati, ma non mancarono episodi di ostilità e respingimento. E nessuno di questi partigiani ebrei – ci racconta Liliana Picciotto – alla fine della guerra scelse di restare in Italia.
Tra tutte le tessere del mosaico la più sorprendente riguarda il contributo alla Resistenza italiana di sinti e rom. Una memoria – rimarca Luca Bravi – che non ha mai avuto accesso allo spazio pubblico dell’elaborazione collettiva. Artisti e saltimbanchi di giorno, partigiani di notte. Amilcare Debar, sinto italiano nato a Torino, a diciassette anni tra i compagni di lotta si conquista il soprannome di Corsaro. Avrebbe scoperto la sua vera origine solo nel dopoguerra, scegliendo di tornare nella sua comunità rimasta ai margini. «Non importa chi siamo né da dove veniamo. Ciò che importa è che siamo tutti uomini», disse nella sua ultima testimonianza partigiana. Un esergo ideale per questa inedita Resistenza migrante che merita di essere studiata a fondo.