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 2024  novembre 19 Martedì calendario

Biografia di Saladino


Nür ad-Din ibn Zengi (in italiano Norandino), signore di Aleppo, sultano di Damasco poi conquistatore dell’Egitto, morì nel 1174. Il suo posto fu preso da Sälah ad-Din (in italiano Saladino), figlio di un luogotenente di Norandino. Saladino all’epoca aveva trentasei anni. Di anni ne trascorsero altri tredici prima che l’erede di Norandino – con la battaglia di Hattin nel luglio del 1187 – riuscisse in un’impresa che all’epoca del suo predecessore appariva impossibile: sconfisse gli eserciti crociati e riportò Gerusalemme (conquistata nel 1099) sotto le insegne dell’islam. Dopo Hattin – scrive Claudio Lo Jacono in Saladino. La folgore di Siria che riconquistò la Gerusalemme crociata in procinto di essere pubblicato per i tipi della Salerno – «caddero in breve uno dietro l’altro tutti i feudi crociati» da Acri (che sarà riconquistata due anni dopo e diverrà la nuova capitale del Regno crociato) a Nablus, da Giaffa a Toron, da Sidone ad Ascalona, a Beirut. Senza più uomini in grado di difenderli, prosegue Lo Jacono, in un sol giorno furono vanificati «decenni e decenni di strenuo ed eroico impegno per il quale erano andate perdute negli anni, su tutti i fronti belligeranti, milioni di vite». Ad Hattin sopravvissero solo duemila crociati sui ventimila impegnati nello scontro. Impossibile calcolare il numero dei morti tra i vincitori ma quasi certamente furono molti di più.
Cosa rese possibile quel successo di Saladino? Secondo Antonio Musarra – che ne ha scritto in Le crociate. L’idea, la storia, il mito (il Mulino) – oltre a molti altri fattori la circostanza che la piana di Hattin su cui i crociati mossero all’attacco fosse priva di approvvigionamenti idrici. Il 4 luglio del 1187, preceduti dalla reliquia della Vera Croce, fatta portare da Gerusalemme, i combattenti cristiani tentarono di aprirsi un varco in direzione di un lago, così da fare incetta di acqua.
Ma, scrive Musarra, «si trovarono completamente circondati e con il sole negli occhi». Qualcuno, come il conte di Tripoli, decise di darsi alla fuga. I più resistettero ma per gli altri fu il destino di cui abbiamo detto.
Tra i prigionieri re Guido di Lusignano e Rinaldo di Châtillon furono portati nel padiglione del sultano che offrì loro una bevanda ghiacciata dalle nevi dell’Hermon. Poi volle che fossero tradotti, per le orecchie di coloro che non avevano imparato l’arabo, i suoi rimproveri per il comportamento di Rinaldo nei confronti degli inermi pellegrini musulmani, catturati e uccisi a dispetto di una precedente tregua. A questo punto Saladino volle restare solo a meditare nella sua tenda. Dopodiché fece rientrare Guido (che aveva deciso di tenere in vita) e Rinaldo «offrendo seccamente a quest’ultimo di optare su due piedi tra la conversione alla fede islamica e la morte». Rinaldo scelse la morte e il sultano «gli vibrò immediatamente un vigoroso fendente al collo che tuttavia non lo uccise sul colpo». L’incombenza di portare a termine l’operazione fu lasciata alle guardie. La regina Sibilla di Gerusalemme fu lasciata nella città per spostarsi poi a Nablus. Suo marito Guido fu portato a Tortosa dove tempo dopo sarebbe stato rimesso in libertà. I nobili vennero invece inviati a Damasco dove ricevettero un «trattamento riguardoso». La grazia sovrana fu accordata solo a Eschiva, moglie di Raimondo III, «forse», suppone Lo Jacono, «per i buoni rapporti del sultano con suo marito». Eschiva poté pertanto rifugiarsi a Tripoli, mentre gli «irriducibili, temuti e odiatissimi Cavalieri degli ordini militari» – salvo Gérard de Rideford che, secondo Musarra, «avrebbe reso al sultano ambigui favori» – furono sterminati. Gli altri prigionieri vennero venduti come schiavi.
Il sultano dispose che non si ricorresse a nessuna forma di brutalità nei confronti di uomini e cose e gli ebrei furono espressamente «invitati da Saladino a tornare a Gerusalemme da cui erano doverosamente dovuti fuggire in occasione dei massacri del 1099». Il suo desiderio che nella stessa Gerusalemme «rimanessero buoni artigiani ed esperti mercanti cristiani» poté però realizzarsi solo in parte dal momento che molti di loro preferirono lasciare la Città Santa e trasferirsi altrove. Per lo più in Europa.
A motivazione del diniego ai musulmani che chiedevano la demolizione della Basilica del Santo Sepolcro, Saladino ricordò che il califfo sotto cui era avvenuta la conquista di Gerusalemme nel VII secolo aveva imposto ai cristiani il solo pagamento di una tassa. E, nel caso avessero posseduto proprietà immobili, di un’imposta fondiaria, più lieve però di quella pretesa dai bizantini. Saladino, scrive Lo Jacono, «malgrado l’indubbio coraggio e la capacità di sacrificarsi», non apparteneva «a quel genere di comandanti che si immolano malgrado l’esito negativo di una battaglia». E, ad esempio, quando considerò indifendibili Sidone, Cesarea e Giaffa, si ritirò senza esitazione.
La sua generosità si accompagnava al calcolo. Quando decise di restituire la libertà a Guido di Lusignano, agì, secondo Lo Jacono, «un po’ per il rispetto che provava per ogni sovrano ma, ancor più, perché sperava che ciò avrebbe fatto deflagrare attriti e dissensi tra Guido e i suoi numerosi contestatori crociati». Pretese tuttavia da Guido un solenne impegno di allontanarsi «oltremare» e di non tornare mai più a combattere in Terra Santa. Guido – per il quale, scrive Lo Jacono, «una promessa non aveva evidentemente valore se sottoscritta con un musulmano, al contrario di Saladino che manteneva sempre e comunque la parola data» – violò quell’impegno. La reazione di Saladino fu violenta. Fece parzialmente incendiare la Cattedrale di Nostra Signora di Tortosa e ne abbatté una parte. Una misura ritorsiva che, come si è detto, nel corso della sua lunga carriera militare non aveva mai attuato contro nessun luogo di culto cristiano. E che, scrive Lo Jacono, «colpì negativamente persino i musulmani che si recavano talora in pia visita alla chiesa dedicata alla madre di Gesù».
Negli anni successivi, quelli che precedettero la morte (1193), Saladino si misurò con Riccardo I Cuor di Leone salpato dall’Inghilterra per imbarcare a Genova, su cento navi, ottomila soldati nonché un imponente materiale bellico, tra cui alcune nuove macchine d’assedio. Riccardo fu il protagonista della cosiddetta «crociata dei re», vale a dire lui e Filippo II Augusto di Francia (1189-1192). Nonostante la nomea guadagnata in battaglia, scrive Musarra, Riccardo «era un mediocre capo militare, la sua indole passionale lo induceva a continui accessi d’ira, alternati a crisi di sconforto». L’afflusso dei soldati dei «due re» comportò la comparsa di epidemie, in gran parte esito delle orribili condizioni igieniche degli accampamenti. Epidemie che tra l’altro condussero alla morte, tra luglio e ottobre del 1190, della regina di Gerusalemme Sibilla e delle due figlie avute da Guido di Lusignano. Morirono anche il duca Federico VI, figlio del Barbarossa, e centinaia di suoi soldati.
Riccardo cercò di negoziare con Saladino per recuperare la reliquia della Vera Croce offrendo in cambio diversi prigionieri. A seguito del fallimento delle trattative, ordinò che tremila prigionieri fossero trucidati al cospetto dell’esercito musulmano, «costretto», scrive Musarra, «ad assistere impotente alla scena». In seguito, i «due re» furono anch’essi colpiti da una misteriosa malattia che non risparmiò neanche Saladino. Il quale, scrive Lo Jacono, a quel punto «risentiva notevolmente della continua pressione fisica e psicologica esercitata dal nemico». Si impose a questo punto una tregua. E fu forse il forzato riposo nei due campi ad «agevolare occasionali scambi di cortesie come la frutta fresca che Saladino fece recapitare ai monarchi cristiani, graditissima per il suo prezioso apporto vitaminico». Contraccambiata «nientemeno che con monili d’oro e gioielli». Il rapporto tra Riccardo I e Saladino, osserva Lo Jacono, fu «in qualche modo legato agli ideali della cavalleria diffusa in quell’epoca non solo nell’Occidente cristiano ma anche nell’Oriente islamico».
L’autore del libro si pone il problema del perché di Saladino nel mondo cristiano sia sopravvissuta per secoli un’immagine sostanzialmente positiva, nonostante quello stesso mondo cristiano avrebbe avuto più di un motivo per ricordarlo con astio. Se non altro per aver messo fine al regno crociato di Gerusalemme. Secondo una leggenda, Ugo di Cesarea, fatto prigioniero, gli avrebbe addirittura offerto l’investitura a Cavaliere crociato. Guglielmo di Tiro nel XII secolo, successivamente Ciullo d’Alcamo e persino Dante Alighieri – sia nel Convivio che nella Divina Commedia – gli riservarono un trattamento di grande privilegio. Anche Giovanni Boccaccio nel Decamerone lo descriverà come «uomo di nazione assai umile ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in fatti di guerra, sì come in più sue operazioni dimostrò … fu in donare magnifico e delle sue magnificenze se ne raccontano assai».
Secondo lo studioso francese Claude Cahen – in Oriente e Occidente ai tempi delle Crociate (il Mulino) – Saladino «ebbe la fortuna, ma senz’altro anche l’abilità, di trovare grandi storici che lo celebrarono». Come si rileva del resto dal libro di Hamilton Alexander Rosskeen Gibb Vita di Saladino. Dalle opere di Imad ad-din e Bahà ad-Din (Salerno). Uno in particolare, Bahà ad-Din, suo segretario particolare nonché biografo, ce lo descrive come «umile con gli umili anche quando era diventato il più potente tra i potenti». Capace persino di mettersi improvvisamente a piangere davanti ai soldati alla notizia della morte di un suo amico (e i soldati, pur non conoscendo il motivo di quei singhiozzi, avrebbero pianto anche loro). Saladino è stato consegnato alla storia come un ufficiale curdo tra i trenta e i quarant’anni – quale era negli anni della sua formazione al servizio di Norandino – scrive Amin Maalouf in Le crociate viste dagli arabi (Sei), di cui tutti sapevano «che si sarebbe facilmente accontentato di essere un emiro tra tanti altri, se la sorte non lo avesse proiettato, suo malgrado, in prima fila sulla scena politica». Anche se Francesco Gabrieli in Storici arabi delle Crociate (Einaudi) ha saputo cogliere alcune discrepanze in questi racconti.
Persino i crociati, prosegue Cahen, «riportarono in Occidente una sua immagine che, progressivamente, lo fece diventare un eroe da romanzo di tipo occidentale». Un mondo, quello occidentale – osserva Lo Jacono – in cui non è raro si sia espresso un giudizio positivo su un qualche uomo di lettere, uno scienziato o uno statista musulmano. Questo però non avveniva facilmente quando si aveva a che fare con un «uomo d’arme, specie se vittorioso sulle forze cristiane in scontri caratterizzati da una forte valenza ideologica e religiosa».
Secondo Cahen ciò è dipeso dal fatto che Saladino fosse di origini curde e non turche. Considerazione che, per Lo Jacono, rimandava all’ostinato sfavore occidentale nei confronti della cultura turca (nonostante essa faccia «parte non accidentale della nostra comune storia»). Può darsi che Cahen avesse ragione. Ma giustamente Lo Jacono fa osservare che Saladino fu il fedele prosecutore della linea politica adottata dal turco Norandino. Il quale Norandino aveva affiancato alle sue, truppe curde sì ma anche armene e sudanesi. Allo stesso modo Saladino si servì di soldati turchi assieme ai curdi.
Claudio Lo Jacono afferma che il giudizio sostanzialmente positivo di cui ha goduto il condottiero musulmano è dipeso verosimilmente dalla sua «decisione di non aver fatto passare per le armi i cristiani sconfitti, caduti alla sua totale mercé, diversamente da quel che avevano fatto invece con i musulmani e con gli ebrei i primi guerrieri con la croce dopo che ebbero espugnato nel 1099 la Città Santa». Ed è questo che spiega probabilmente il grande successo del «feroce» Saladino nei libri di storia nella cultura occidentale.