La Lettura, 18 novembre 2024
I sogni di Dostoevskij
Dostoevskij non smette di sorprenderci. Mentre esce, dopo anni di assenza, una nuova edizione dei Demòni nella traduzione della ormai celebre e lodatissima Emanuela Guercetti, arriva in libreria un’autentica chicca, un inedito (in italiano, certo, visto che in russo è tutto ben noto in ponderosi trenta volumi) ripescato e pubblicato da un valente slavista, Lucio Coco.
Si tratta di un articolo del 1859, Russia (stesso titolo del volume ora in libreria), con cui l’autore avrebbe dovuto aprire una serie mai proseguita. Un anno fondamentale per Dostoevskij, il 1859, la fine di un decennio drammatico, sconvolgente. Ma procediamo per ordine.
Giovane scrittore di grande successo, già celebre per racconti come Il sosia e Notti bianche, nel 1849 viene accusato di sovversione e terrorismo con un gruppo di amici, colpevoli solo di accese discussioni sulla politica internazionale. Il 1848 ha incendiato l’Europa e lo zar Nicola I, rigido e reazionario, teme contagi e tumulti in patria. Dostoevskij e i compagni vengono arrestati, processati, condannati. Una carriera spezzata, una vita sepolta. Quattro anni di duro carcere nella fortezza di Omsk e tre di servizio militare come soldato semplice in Asia Centrale. Dostoevskij scompare, travolto nelle galere zariste. Ricompare dieci anni dopo: nel 1858 ottiene il congedo, lascia l’Asia Centrale, arriva a Tver’ e poco dopo a Pietroburgo. Il nuovo zar Alessandro II, salito al trono nel 1855, è molto più indulgente e pronto ad avviare indispensabili riforme, prima fra tutte l’abolizione della servitù della gleba.
Finalmente Dostoevskij riprende a scrivere: gli si affollano progetti, idee, aspirazioni. Comincia con un articolo, Russia appunto. E nello stesso tempo entra in campo con una rivista, «Il tempo», che ottiene il visto di censura e di cui sarà redattore insieme con il fratello Michail. Supplica lo zar: «Vostra Maestà, fatemi resuscitare, datemi la possibilità di essere utile alla mia famiglia e alla mia Patria». E si getta a capofitto nel lavoro redazionale fin dal primo numero: le sue parole echeggiano nell’articolo da poco pubblicato. «Sappiamo oggi che non possiamo non essere europei, che non possiamo rinchiuderci nelle forme di vita che l’Occidente ha ricevuto dai suoi principi».
La Russia e l’Europa: per l’articolo appena uscito il tema è scottante. Dostoevskij attacca con una forte polemica: «Se c’è al mondo un Paese più sconosciuto e inesplorato, più incompreso e incomprensibile, questo Paese è indiscutibilmente la Russia per i suoi vicini occidentali». E dichiara senza mezzi termini: «Per l’Europa la Russia è l’enigma della Sfinge». Dunque l’Occidente è un vero mistero? «Perfino la luna è studiata con assai più dettagli della Russia. Perlomeno è del tutto noto che lì non ci vive nessuno; della Russia si sa che ci vivono degli uomini, ma che tipo di uomini?... Quando il discorso tocca la Russia, un’insolita ottusità cade su quelle stesse persone che hanno inventato la polvere da sparo o contato le stelle in cielo».
Dostoevskij è categorico: tutti gli europei, tedeschi, inglesi, francesi, sono arroganti, presuntuosi, superficiali. In particolare i francesi: «Vengono da noi a darci una sbirciatina, a trapassare con una vista d’aquila il nostro diritto e rovescio e a esprimere un’opinione definitiva, inappellabile; inoltre sanno già a Parigi ciò che scriveranno in Russia e se ne vanno con l’assoluta certezza che ci hanno resi felici e che ci hanno aiutato a riformare la Russia».
Con l’articolo Russia comincia per Dostoevskij una nuova era. Non è più lo stesso uomo, non è più il giovane in carriera a cui tutti aprivano le porte. La sofferenza gli ha mutato l’anima. Dieci anni tra assassini e furfanti gli si sono impressi dentro. Non a caso i delitti e i castighi da allora gli rimarranno indelebili. Ma gli rimarrà anche una forza immensa di rinnovamento. Lo si vede in alcune pagine dell’articolo: «La nuova Russia a poco a poco si va formando, a poco a poco prende consapevolezza. Essa vive in tutti i cuori dei russi, in ogni aspirazione della gente russa. La nuova Russia ha capito che uno solo è il suolo nel quale tutto si unisce e si concilia. Questa nuova Russia ha già dato testimonianza di sé». La conclusione è chiara, lampante: «La civilizzazione europea non si addice a noi. Voi volete europeizzare il popolo russo. Ma è possibile forse che l’idea europea dia in tutt’altro luogo quegli stessi risultati? Da noi tutto è particolare, tutto è diverso».
Dall’articolo del 1859 in poi Dostoevskij proseguirà il cammino verso un’Europa completamente diversa dagli europei parcellizzati e divisi, un’Europa universale, ideale, che unisce tutti i popoli. Ne parla in un brano dell’Adolescente di quasi vent’anni dopo, del 1875: «Il russo è dotato della capacità di diventare europeo rimanendo perfettamente russo. È questa la caratteristica che ci distingue da tutti gli altri. Io in Francia sono un francese, in Germania sono un tedesco e insieme sono russo al massimo grado... Amo la Russia ma Venezia, Roma, Parigi, i tesori delle loro arti mi sono altrettanto cari... Oh, ai russi sono care queste vecchie pietre straniere, questi miracoli del vecchio mondo». Anche Ivan Karamazov confessa la sua contraddizione di fronte alla cultura europea: «Voglio fare un viaggio in Europa. So bene che andrò in un cimitero, ma nel più prezioso cimitero possibile. Vi giacciono cari morti, ogni pietra su di loro parla di un passato così ardente, di una fede così appassionata nelle proprie imprese, nella propria verità. Sì, andrò in quella terra, bacerò quelle pietre, piangerò su di esse anche se sono convinto con tutta l’anima che quella terra da tanto tempo è un cimitero e nulla più».
Le ultime parole di Dostoevskij, poco prima di morire, confermano la sua fede incrollabile nella missione paneuropea della Russia: «Sì, la missione del popolo russo è incontestabilmente universale. Diventare un vero russo, diventare completamente russo forse significa soltanto diventare fratello di tutti gli uomini. A un vero russo l’Europa sta tanto a cuore quanto la Russia stessa, perché il nostro destino è l’universalità, acquistata non con la spada ma con la forza della fratellanza. Diventare un vero russo significa aspirare alla definitiva riconciliazione delle contraddizioni europee».