La Lettura, 18 novembre 2024
Secondo il maestro Riccardo Chailly La forza del destino di Giuseppe Verdi per il Teatro alla Scala rappresenta «l’opera della riconciliazione»
Secondo il maestro Riccardo Chailly La forza del destino di Giuseppe Verdi per il Teatro alla Scala rappresenta «l’opera della riconciliazione». Lo sottolinea nel corso della lunga chiacchierata con «la Lettura» sull’opera che ha scelto per inaugurare la nuova stagione, il 7 dicembre. «Ho un cast straordinario – racconta – per celebrare questa nuova avventura: Anna Netrebko, con la quale ho fatto diverse prime, nei panni di Donna Leonora; Ludovic Tézier come Don Carlo di Vargas e altri». La regia è di Leo Muscato. «Verdi – riprende con un pathos raro in un musicista del suo rango – aveva interrotto i rapporti con questo teatro per 24 anni. È stata un’assenza forzata, ma da lui voluta, dopo varie vicissitudini, l’ultima delle quali la messa in scena sbagliata della sua Giovanna d’Arco nel febbraio del 1845. Riteneva che la Scala rappresentasse male la sua musica, che non ci fossero scelte artistiche – dello spettacolo e dei cantanti – adeguate alla difficoltà delle sue opere».
Lo ricorda bene Franco Abbiati nella biografia del compositore: «Alla Scala non metterà più piede, né in qualità di compositore, né in qualità di assistente alla messa in scena». Vi farà ritorno infatti – ripassiamo la parola a Chailly – «solo nel 1869, per l’edizione italiana de La forza del destino. Per questo motivo Forza (è il diminutivo che si usa per questa partitura, ndr) è un’opera così importante per la Scala. Nella storia del Sant’Ambrogio milanese, a partire dal 1951 (la prima del 7 dicembre alla Scala nasce proprio in quell’anno, per iniziativa di Victor de Sabata, 1892-1967, ndr), questo straordinario capolavoro verdiano ha inaugurato la stagione scaligera un’unica volta nel 1965, diretta da Gianandrea Gavazzeni (1909-1996), con la regia di Margherita Wallmann (1904-1992). Sono passati 59 anni: è ora che torni! Sì, è stato proprio questo il primo pensiero, legato al mio percorso verdiano di questi anni: quel senso di distanza da quella lontanissima prima». E manca inoltre dalle stagioni della Scala da 25 anni, quando nel febbraio del 1999 la riportò in scena Riccardo Muti con la regia di Hugo de Ana.
La forza del destino è un melodramma in quattro atti di Giuseppe Verdi (1813-1901) su libretto di Francesco Maria Piave (1810-1876) tratto da Alvaro o la forza del destino dello spagnolo Ángel de Saavedra (1791-1865). L’azione si svolge in Spagna e in Italia, nel Settecento. Tra il primo e il secondo atto passano circa 18 mesi. Tra il secondo e il terzo alcuni anni; e tra il terzo e il quarto oltre un lustro. Andò in scena in prima assoluta al Teatro Imperiale di San Pietroburgo, in Russia, il 10 novembre 1862. Il debutto italiano, con il titolo Don Alvaro, fu al teatro Apollo di Roma il 7 febbraio 1863 con le sorelle cantanti Carlotta e Barbara Marchisio (1835-1872 e 1833-1919). Esistono due versioni di quest’opera. Per la seconda, che andò in scena con successo alla Scala il 27 febbraio 1869, Verdi aggiunse la Sinfonia, compose un nuovo finale, in cui Don Alvaro sopravvive alla morte di Leonora (nella prima invece si suicidava), fece altre modifiche e chiese di rielaborare il libretto ad Antonio Ghislanzoni (1824-1893).
Maestro, la sua storia con quest’opera?
«L’ho eseguita in forma di concerto, la Sinfonia è mia compagna di viaggio da ormai mezzo secolo in tutto il mondo, ma non ho mai eseguito l’opera integrale. È la mia sedicesima opera di Verdi, quindi il percorso s’è fatto ampio e lungo. Ogni volta che torno su questo autore, il viaggio precedente lascia comunque un effetto indelebile. E anche in questo percorso di studio di Forza, il Don Carlo di un anno fa è sicuramente molto presente».
Fra le due versioni de «La forza del destino», tra il 1862 e il 1869, andò fra l’altro in scena proprio «Don Carlo».
«C’è un’osmosi del pensiero verdiano su due orizzonti, libretto e storia completamente diversi, anche se sono due storie spagnole».
Il suo intenso percorso verdiano al Teatro alla Scala ha una grande coerenza, a partire da «Giovanna d’Arco».
«Ho portato per la prima volta Giovanna d’Arco a inaugurare la stagione della Scala. Stessa cosa ho fatto con Attila. Sono titoli verdiani meno noti, ma non per questo meno importanti. Macbeth è stato un ritorno. Don Carlo l’opera che ha avuto il maggior numero di esecuzioni il 7 dicembre. Ora tocca a Forza, dopo così tanti anni».
Lei dirigerà la seconda versione: quale edizione critica ha scelto?
«Quella di Casa Ricordi del 2005, a cura di Philippe Gosset e William Holmes. Quest’opera richiede un enorme impegno, prima di tutto per l’orchestra, poi per le parti vocali e quelle collettive».
Poi è anche piuttosto lunga...
«Nella sua forma integrale è un’opera tra le più lunghe di Verdi. Sono circa tre ore di musica».
Stiamo parlando fra l’altro di un’opera complicatissima, con tanti personaggi e situazioni diverse, una commedia collettiva.
«Gino Roncaglia in un libro del 1940, L’ascensione creatrice di Giuseppe Verdi, scriveva che il libretto de La forza del destino potrebbe apparire come uno Zibaldone, quindi un accumulo di appunti, schemi, abbozzi, annotazioni senza ordine».
Di fatto si trova davvero di tutto all’interno dell’opera...
«Colpi di pistola, fughe, inseguimenti, folle eterogenee, osteria, pellegrini, travestimenti, vestizione sacra di un penitente, accampamento, merciaiuoli, vivandiere, zingare, una battaglia, segreti traditi, scodellamento di minestra ai poveri, duelli, fratricidi, taverna, convento, vita del campo. Un’enorme quantità di situazioni...».
Anche per il regista non dev’essere semplice affatto...
«È difficilissimo anche per lui. E poi a tutto questo si aggiunge l’elemento corale – sempre molto suddiviso tra sezioni corali differenti – che interviene in tutte le scene. Ci troviamo di fronte a una grande complessità».
Non solo musicale. Ma anche del testo.
«Si racconta che Verdi abbia chiamato il librettista Francesco Maria Piave a Sant’Agata, nella sua villa nel piacentino, e lo abbia tenuto lì, chiuso in casa, per due mesi, per stabilire il disegno dell’opera. Sulla sceneggiatura in prosa che Verdi aveva già suddiviso tra recitativi e parti cantabili, Piave ha dovuto costruire i nuovi versi dell’opera. Un parto difficilissimo...».
Riferendosi a quest’opera, in una lettera Verdi scrisse che «non è necessario sapere fare solfeggi, ma bisogna avere dell’anima e capire la parola ed esprimerla».
«È così. In un altro passaggio che troviamo nella lettere, si capisce anche l’importanza che Verdi dava a quelle che definiva “le figurine nuove di secondo piano”, ovvero personaggi non primari. Scriveva: “Preziosilla e Fra Melitone sono importantissimi, sotto un certo aspetto sono le prime parti dell’opera”».
Quale altra opera verdiana si sente di legare a «La forza del destino»?
«Questa segue, proprio dal punto di vista della storia della genesi, la creazione di Un ballo in maschera, che è del 1859. Cito quest’opera in particolare, perché qui il compositore, per la prima volta fa una magistrale combinazione del linguaggio tragico con quello comico. Ecco, il genere tragicomico l’aveva usato per la prima volta proprio in Un ballo in maschera e poi lo ha trasferito in Forza, assegnandolo ai ruoli di Preziosilla, Fra Melitone, e in questo caso anche di Mastro Trabuco. I momenti in cui si affida a questo nuovo linguaggio, sono modernissimi dal punto di vista musicale».
Il tragicomico che poi esploderà anni dopo nella sua ultima opera, con quel «Tutto nel mondo è burla. L’uom è nato burlone»...
«Con Falstaff del 1893, Un ballo in maschera e La forza del destino formano un trittico, all’interno del quale, sul piano della scrittura tragicomica, la prima delle opere citate raggiunge vertici assoluti».
«La forza del destino», tra le opere di Verdi è quella che guarda più ad Alessandro Manzoni. È d’accordo?
«Lui aveva assoluta ammirazione e totale rispetto per Manzoni. Sì, direi che è proprio l’opera più manzoniana in assoluto dal punto di vista del racconto, che tocca tutti questi angoli remoti dell’essere umano e i tragici coinvolgimenti della vita dei personaggi».
Qual è l’elemento che assume un ruolo centrale in questo allestimento?
«La guerra ha una centralità assoluta in questa produzione. Specialmente nell’impostazione scelta dal regista Leo Muscato: la guerra è tutto quello che sarà poi l’afflato tragico del racconto».
Se lei dovesse riassumere aforisticamente la storia de «La forza del destino», cosa direbbe?
«È la negazione, forzata dal destino. È l’impossibilità di un grande amore. È un grande amore che non riesce a compiersi, sebbene i personaggi si desiderino, sempre con un effetto di distanza e di altissimo pensiero. Un pensiero accostato a eventi bassamente drammatici e poi anche tragici, perché ci saranno due vittime nel racconto».
Ma secondo lei qual è stata la maggiore difficoltà che ha riscontrato Verdi nella riscrittura di quest’opera?
«Posso solo immaginare quanto fosse difficile per Verdi trasformare la prima versione di San Pietroburgo, sette anni dopo, e rifarla per la Scala... Doveva arrivare a un finale catartico. In questo caso la versione della Scala del ’69 ci lascia pensieri altissimi, fra cui la Sinfonia, straordinaria, perché prima, a San Pietroburgo, c’era solo un preludio che era di quattro minuti. Invece qui Verdi ha costruito una Sinfonia, forse la più popolare e amata nel mondo. E ricordo che questa è l’ultima opera di Verdi in cui scrive una sinfonia all’inizio».
Ci sono quegli squilli di tromba in apertura...
«Quelle tre note di Mi iniziali degli ottoni che diventano una specie di idea fissa che ritroveremo più volte durante l’opera. Bellissime. Poi la sinfonia e la seconda composizione per Milano che è la scena della ronda, pagina straordinaria e notturna, di una bellezza e di una poesia unica, per coro maschile, e poi ancora il terzetto finale, il famoso terzetto catartico».
Lei ha individuato sette momenti sublimi dell’opera, ce li vuole svelare?
«Il primo momento assoluto sublime è la Sinfonia stessa che raccoglie tutti i momenti salienti dell’opera, tutte le parti, in particolare melodiche, che identificano situazioni e personaggi, li troviamo già tutti in sede nella Sinfonia, nell’arco di otto minuti circa di musica, con un’orchestrazione apocalittica tanto è grande, perfetta e anche moderna. Il secondo momento è la chiusa del secondo atto, la Vergine degli angeli, affidata al coro, al soprano solista: ha un andamento molto rarefatto dell’orchestra, in terzine, con i violoncelli prima e poi anche dell’arpa. Diventa qualcosa di spiritualmente altissimo».
Il compositore Ildebrando Pizzetti diceva che basterebbe questa parte per rendere «La forza del destino» un capolavoro assoluto.
«Siamo di fronte a una meravigliosa meditazione collettiva, fra i punti più alti raggiunti da Verdi in questo senso, che partono da Nabucco e ritroveremo ne I Lombardi alla prima Crociata. Questa del la Forza in particolare, forse, è la più alta di tutte».
Continuiamo con i suoi punti sublimi: il terzo?
«È l’introduzione del terzo atto, prima della romanza di Alvaro O tu che in seno agli angeli. C’è una bellissima linea melodica del clarinetto».
La più lunga, fra l’altro, mai scritta da Verdi per quello strumento.
«Dura cinque minuti, sembra quasi un movimento di un concerto per clarinetto e orchestra. Quella melodia, nella sua perfezione formale è talmente bella, talmente alta nella scrittura, nel senso anche del dolore che diventa quasi indescrivibile».
Gli altri momenti dell’opera da incorniciare?
«La mia quarta tappa nel sublime è la romanza di Don Carlo, Urna fatale, perché è un momento molto drammatico, cupo, tragico e tenebroso, con un contenuto dal punto di vista musicale che è altissimo e prelude poi a una cabaletta, che è invece liberatoria e dà sfogo al belcanto verdiano, con una variazione della voce del baritono in tutte le sue tessiture».
Ci sta portando verso «Pace, mio Dio»...
«Che è la quinta citazione, la grande scena di Leonora, un altro momento di altissima drammaturgia teatrale, ma con una qualità musicale impressionante (Chailly intona l’attacco, ndr). La bellezza e lo sviluppo di un canto celestiale, accompagnato soprattutto dall’arpa».
Gli ultimi due «suoi» momenti invece?
«La sesta tappa è il duetto del quarto atto fra Padre Guardiano e Fra Melitone, Del mondo i disinganni... (anche qui Chailly intona l’inizio, ndr). Qui entra il tragicomico: Padre Guardiano è l’assoluta serietà morale e spirituale, il contrario di Fra Melitone. È un duetto originalissimo. La mia settima tappa, per chiudere, è il terzetto finale: Non imprecare, umiliati a lui. Verdi diceva che aveva bisogno di trovare un suono celestiale».
E cosa fa per arrivarci?
«Usa parsimonia. Adopera molto attentamente le dinamiche, va di morbidezza, sul piano e sul pianissimo. Esclude gli ottoni e affida quasi tutto agli archi e agli strumentini (oboe, ottavino, flauto, ndr). È l’arpa, poi, a trionfare nel centro di questo grande terzetto, ma si inserisce una voce nuova che è il mistero. Verdi dopo quasi quattro ore di musica inserisce, a sorpresa, il clarinetto basso, come se fosse la redenzione dell’anima, qualcosa che ci porta tutti in alto. E, nell’austerità della musica di questo stupendo e lungo 6/8 che conclude l’opera, dà alla melodia anche la dicitura cantabile».
Un effetto sorpresa con colori scuri, meditativi e spirituali per il finale...
«Quel suono si porta dietro proprio l’idea catartica che stava cercando. L’opera finisce con un tremolo di archi, sempre con qualche nota dell’arpa, in terzine, e poi dei pizzicati di violoncelli e contrabbassi, raddoppiati dal timpano e dalla gran cassa in pianissimo. Diventa un finale di una morbidezza, di una leggerezza totale che porta alla commozione».
Verdi farà finali simili negli anni a venire?
«Pochi anni dopo, nel 1871, scriverà Aida in cui il finale, il famoso duetto tra Radames e Aida, finisce in un modo molto simile. Questo de La forza sembra quasi preparatorio al finale di Aida».
Maestro, scusi, ma perché si dice che quest’opera sia foriera di sfortuna, che porti male in sostanza? Non è l’unica, per carità: di Maurice Ravel si dice non porti bene il suo «Bolero», di Jacques Offenbach il suo «I racconti di Hoffman»...
(Ride) «Con La forza ci sono state in passato coincidenze in esecuzione in cui si sono verificati grandi problemi all’interno della compagnia. Questo è accaduto, quindi è vero. Sicuramente il titolo stesso denuncia la pericolosità dell’opera, cioè la forza del destino: è questo destino avverso che impedisce nel modo più assoluto la realizzazione di un grande amore. È proprio il destino che ha perso la possibilità che ciò possa accadere. Io la vedo molto di più in questo senso, più che sulle dicerie. E poi, aggiungo, se devo pensare alla vocalità di tutto Verdi, non posso che dire che le sue opere siano pericolose».
Pericolose perché?
«Tutte le opere di Verdi sono pericolose per la difficoltà estrema che rappresenta la scrittura stessa, in particolare quella legata alle voci: è magistralmente composta, ma richiede un grande impegno, una bravura e preparazione tecnica e uno sforzo particolarissimo. E in Forza tutto viene raddoppiato se non triplicato, vista la lunghezza dell’opera».
Lei quando si accinge a preparare un’opera, fa sempre lunghissime ricerche filologiche, va letteralmente alle radici.
«È necessario, anche perché la Scala ha una cronistoria del passato straordinaria, da cui un interprete non può prescindere. E poi grazie ai dischi, abbiamo la fortuna di trovare incisioni storiche».
A proposito di incisioni storiche, le sue preferite?
«Quella di Tullio Serafin del 1955 all’interno di questo teatro, con Richard Tucker e Maria Callas. Ogni esecuzione successiva ha aggiunto un percorso in più. Tra quelle storiche imprescindibili, cito due live, uno diretto a Firenze nel 1953 da Dimitri Mitropoulos e l’altro dieci anni prima, nel 1943 al Metropolitan di New York diretto da Bruno Walter. Da ragazzo, dalla collezione discografica di mio padre, ascoltai per la prima volta questa opera, diretta da Gino Marinuzzi: fu una rivelazione per me».
È un’opera che originariamente ha una storia russa: la prima andò in scena a San Pietroburgo. Come mai?
«Pare che gli abbiano offerto una cifra enorme, spropositata. E Verdi aveva anche molte spese da dovere sostenere».
Parlando di spese, nel 1861 quando Verdi andò a San Pietroburgo per la messa in scena dell’opera, fece un ordine a un’enoteca, per una piccola scorta di sopravvivenza da mandare in Russia: «100 bottiglie piccolo Bordeaux per pasteggiare, 20 bottiglie Bordeaux fino, 20 bottiglie di Champagne...».
(Ride) «Molte spese, per l’appunto».