Robinson, 18 novembre 2024
E Dalí decise di diventare immortale
Tutti gli artisti inseguono un sogno, sempre lo stesso, un sogno faraonico: essere, alla morte, seppelliti con le proprie opere. Si sa, l’artista è un errore biologico rispetto all’arte, che per statuto scavalca le spoglie del proprio artefice e cavalca la speranza di un tempo immortale.
Salvador Dalí, spagnolo di nascita e controriformista per generazione, lo sapeva. Per questo è corso ai ripari prendendo seri provvedimenti testamentari prima della sua morte, avvenuta nel 1989.
La volontà dell’artista è stata esaudita. La sua tomba occupa il centro della cupola del Teatro Museo Salvador Dalí, nel pueblo catalano di Figueras. Qui la tomba si fa fulcro di tutte le vetrine espositive del museo, a dimostrazione che l’arte non è soltanto produzione di forme ma anche comportamento evocativo di una volontà di potenza, una perenne presenza postuma alla vita stessa.
È evidente in questo mausoleo la coincidenza tra fare ed essere, produrre ed esibirsi; Dalí diventa una sentinella perenne di un museo volutamente strabico e felicemente indisciplinato, indeciso, tra la vita e la morte.
«Tanto credito prestiamo alla vita, a ciò che essa ha di più precario – la “vita reale”, naturalmente – che quel credito finisce per perdersi» ( André Breton).
Così nel 1924 Breton apriva il primo manifesto del surrealismo, nel quale l’arte teorizzava una strategia di avvicinamento alla vita proprio per risolvere la realtà “mancata”, cioè quella quotidiana e puramente cronologica, attraverso l’affermazione di una surrealtà costruita dall’immaginazione, dal sogno, dalla “follia” che il quotidiano riesce solo a sospettare.
Il surrealismo ha praticato il suo spirito di scissione, innestando la psicoanalisi al marxismo, cercando di saldare la cesura tra conscio e inconscio, tra struttura e sovrastruttura.
Lo svuotamento praticato dai surrealisti è consistito nello svalutare il principio di ragione e il principio di realtà, a favore del valore profondo della psiche e del principio di piacere. L’opera d’arte diventa l’utensile progressivo che permette all’uomo il recupero di una nozione di libertà, censurata dalle regole sociali.
L’arte diventa il momento propedeutico e soggettivo di una liberazione più vasta e sociale che, come un contagio e una malattia, si allarga dall’artista all’intero corpo della collettività. Le tecniche artistiche acquistano in questo modo valore ideologico, in quanto i surrealisti concedono all’automatismo psichico e alle associazioni libere la capacità di sottrarre l’individuo dalla congestione razionale e dalla repressione, in cui vive il proprio quotidiano.
Il surrealismo non è il ribaltamento della ragione nella irragione, ma nella possibilità di andare oltre la ragione, cioè di avere una zona globale in cui l’uomo si trova ad agire.
L’arte non è più un fine bensì un mezzo. L’artista diventa l’uomo del risarcimento, colui che opera la coesione tra interno ed esterno, che tende a sollevare la cortina del reale perché “qualcos’altro” vi faccia irruzione, così l’opera è il sismografo di questo via vai… Il surrealismo è gesto affermativo che effettua un movimento inconsulto che infrange i canoni del buon vivere per dare una sgomitata tra i rigidi paletti delle cose e mandarli all’aria. Come tutte le avanguardie storiche impregna l’opera del suo segno, la trasformazione del mondo,una palingenesi totale che affranchi l’uomo da ogni alienazione, che libero l’individuo dalla storia.
L’atteggiamento aristocratico dell’artista Dalí nasce dall’urgenza di consegnare al mondo un’immagine di sé continuamente sottratta al quotidiano e di competere con essa in tema di immortalità. Se il mondo è immortale, in termini di durata e di continuità, è pure vero che la sua continuità è come una linea di orizzonte senza alcuna emergenza.
L’artista Dalí pone sé stesso come una continua emergenza verticale, rispetto alla piatta orizzontalità del mondo. La sua vita diventa una sequenza di gesti eccentrici e particolari che lo diversificano e lo sottraggono al pulsare indeterminato del tempo, sollevandolo all’attenzione a- temporale del mondo.
L’opera rappresenta una emergenza espressiva frutto di una tensione e della affermazione, conscia e inconscia, della struttura dell’uomo nella sua interezza.
L’ossessione della morte per la persistenza diventa allora maniacale, ridotta a descrizione di un quotidiano, in cui ogni stile viene contaminato e ogni immagine viene pareggiata.
Dalí reprime ogni proprio gesto che possa rasentare il quotidiano spingendolo verso la definizione di un comportamento esemplare. Ma definirsi significa inevitabilmente ridursi a una immagine di sé stesso, sottratto al corso complesso della storia.
Questo scavalcamento continuo della propria opera, questo rinunciare ad affidarsi unicamente al proprio prodotto, diventa il lapsus evidente di una tensione di morte, di una tensione verso l’immortalità.