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 2024  novembre 18 Lunedì calendario

Un bestiario dell’emarginazione

Dei racconti di Inès Cagnati I pipistrelli appena pubblicati da Adelphi con la traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, mi hanno incantato soprattutto i finali. Di solito si chiudono con un gesto solo, in un paio di righe, in maniera fulminante, come dovrebbe sempre accadere in un buon racconto. È un bestiario dell’emarginazione, quello che allestisce la scrittrice di origini italiane naturalizzata francese nota da noi per due romanzi (Génie la matta e Giorno di vacanza), brevi storie di chi, come lei, ha perso la patria d’origine senza riuscire a trovarne una nuova. Ma al contrario dei suoi personaggi – una galleria di stranieri e sradicati di umili origini che si aggrappano alla natura come a un salvagente – Cagnati ha trovato un paese disposta ad accoglierla, enorme, nella letteratura. E i finali dei suoi racconti sono lì a dimostrarlo. La chiusura del racconto di apertura, ad esempio, intitolato La tacchinella: «Ho buttato nell’acqua scura la piccola tacchinella morta e i vecchi fiori appassiti». Si può desumere una storia dal suo finale, procedere al contrario, leggere dalla fine? Gettare nell’acqua le cose che sono servite fin lì alla bambina protagonista e io narrante della vicenda, significa un po’ buttare anche il racconto stesso, disfarsene. Cagnati non finisce i racconti, li butta via. Ed è un gesto potentissimo.Giorgio Manganelli diceva che «il racconto è la forma più consapevole della propria fine, sa che sta per finire», ed è senz’altro vero che rispetto al romanzo la forma breve ha spesso finali che coincidono con la conclusione. In un racconto non c’è possibilità (sarà bene ricordarlo, l’aggettivo qualificativo “breve” indica sia il tempo che lo spazio) per fare un discorso più ampio rispetto alla storia. In Guerra e Pace Lev Tolstoj chiude con una considerazione filosofica di una cinquantina di pagine sulle vicende narrate, è più un atto di decompressione che un vero e proprio finale. Allo stesso modo Manzoni nei Promessi sposi fa seguire la conclusione del romanzo con una serie di considerazioni generali (che sono speculari all’incipit descrittivo e impersonale «Quel ramo del lago di Como…»), che culminano nella comica excusatio non petita «Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta».Questo genere di commenti rende bene l’idea di come il romanzo non abbia un finale, ma debba uscire gradualmente dalla storia: si tratta di congedi più che di finali. Nel racconto invece quale che sia il tipo di finale scelto, l’effetto sarà quello di una epifania (che non significa necessariamente una sorpresa). Più precisamente, se in un romanzo la fine sembra sopraggiungere in ritardo, in un racconto sembra arrivare in anticipo. Inés Cagnati sembra conoscere bene il celebre mantra degli editor del New Yorker, i quali erano soliti tagliare l’ultima frase di qualunque racconto proprio per migliorare il finale, renderlo meno didascalico e più incisivo. Nel racconto L’infedele, che è la storia di un cane che sembra abbandonare la sua famiglia e le mucche cui deve badare ma che poi tornando scopre di essere stato sostituito con un altro cane, al finale basta mezzo rigo: «Lui fa dietrofront e se ne va».In generale, in un racconto storia e discorso combaciano, quando finisce la storia finisce anche il discorso, non c’è più nessun discorso da perseguire. Nel racconto Il gorgo di Beppe Fenoglio c’è un classico finale chiuso (con happy ending!) in cui un figlio sventa il suicidio del padre. La fine, dopo l’effettivo salvataggio (la conclusione) è di appena cinque righe: «Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio per non perdermi di un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava con il pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo». Questo finale non è solo una descrizione, mostra il padre in tutta la sua fragilità e anche riconoscenza nei confronti del figlio che l’ha appena distolto dall’intento di buttarsi nel fiume. In un racconto se c’è un commento finale non dura più di una riga, come succede ad esempio in Meccanica popolare di Raymond Carver, la storia di un bambino conteso tra padre e madre che alla fine viene letteralmente strappato in due. Carver concede al lettore una riga finale paradossale, che gioca appunto sui procedimenti dinamici e formali di cui abbiamo parlato: «In questo modo la questione fu risolta». Spingendosi ancora oltre, se prendiamo per buono che l’incipit ponga delle domande a cui l’explicit dovrebbe rispondere, si può dire che il racconto rispetto al romanzo preferisca il dubbio, l’ambiguità, la non risposta, e ottenga queste tre cose grazie a finali accelerati. Ancora Inés Cagnati col finale dell’ultimo dei sette racconti di questo libro, il cupo e disperato La donna senza nome: «L’acqua, laggiù, in fondo al pozzo, attira, la donna è nel cielo, tutta bianca e coronata di fiori. Mi guarda. Allora sono andata da lei, per essere lei». Non tutti i gorghi sono resistibili, ecco un suicidio con gli aloni sfocati. —