Corriere della Sera, 18 novembre 2024
Elon-Donald. Quanto durerà?
NEW YORK Quanto può durare l’idillio Trump-Musk? A chiederselo, prima ancora degli analisti politici, sono gli stessi collaboratori dell’ex e futuro presidente degli Stati Uniti, sempre più irritati dall’invadenza del ricchissimo imprenditore delle tecnologie. Dopo aver sostenuto The Donald negli ultimi mesi della campagna, contribuendo con almeno 130 milioni di dollari, mettendo al suo servizio la rete sociale X e mobilitando il popolo dei suoi seguaci (205 milioni di follower), Elon si è piazzato stabilmente a Mar-a-Lago: pranza e cena col presidente e con Melania, partecipa agli eventi pubblici e a tutte le riunioni politiche, compresi i colloqui coi candidati a cariche di governo, interferisce su ogni decisione.
Collaboratori nervosi
Anonimi collaboratori di Trump fanno trapelare sempre più spesso il loro sconcerto: Musk si definisce first buddy, migliore amico, ma di fatto – dicono – si comporta da copresidente, nel privato e in pubblico. Ha bocciato ad alta voce le candidature di Mike Pompeo e Nikki Haley, quasi fosse stato lui e non Trump a decidere. Presente a meeting e telefonate di Trump coi leader di mezzo mondo, dal turco Erdogan all’ucraino Zelensky, passando per il presidente argentino Milei, ha avuto un incontro segreto a New York anche con l’ambasciatore dell’Iran alle Nazioni Unite. Inviato da Trump o ha fatto di testa sua?
Semplice irritazione di collaboratori che si sentono scavalcati dall’ultimo arrivato o comincia ad affiorare anche un malessere di Trump? Da giorni i fari dei media sono puntati sulla «strana coppia» in attesa di segnali di divorzio. Tutti e due narcisisti, tutti e due non abituati a dividere le luci del palcoscenico con comprimari, fin qui Elon e Donald hanno convissuto senza grandi scossoni.
Trump continua ad elogiare Musk ma, a ben vedere, un primo altolà il first buddy l’ha già avuto: a metà settimana, quando a Washington ha incontrato i leader repubblicani del Congresso, Trump ha commentato in tono scherzoso la presenza, anche lì, dell’ubiquo Musk: «È sempre con me, non va più a casa, non me ne posso liberare. Fino a quando non mi stufo». Tutti hanno riso. Risata nervosa, hanno commentato alcuni di loro: consapevoli che il sarcasmo spesso nasconde messaggi reali.
Elon o non ha capito o, consapevole di essere, secondo una definizione ormai diffusa, il cittadino non eletto più potente di tutta la storia americana, si sente invulnerabile: ha continuato a bocciare e promuovere candidati a cariche di governo, a farsi fotografare coi membri della famiglia Trump, a intonare canzoni popolari e arie operistiche sul prato di Mar-a-Lago agitandosi in modo un po’ sgraziato fra Trump e il tenore Christopher Macchio.
Ma, soprattutto, nelle ultime ore ha platealmente bocciato quello che era considerato da tutti il candidato di Trump al ministero del Tesoro, il finanziere degli hedge fund Scott Bessent, contrapponendogli Howard Lutnick di Cantor Fitzgerald. Spiegazione: Bessent garantirebbe a Wall Street «business as usual» mentre Lutnick la rivolterebbe.
La linea rossa
Chiunque altro sarebbe stato fulminato all’istante da Trump. Invece Musk si è permesso di varcare un’altra «linea rossa»: ha lodato entusiasticamente Milei per la sua decisione di abbassare i dazi dell’Argentina in modo da far calare i prezzi dei prodotti acquistati dai suoi cittadini. Alla faccia di Trump per il quale dazio è la più bella parola del vocabolario (e nega che questi balzelli facciano salire i prezzi).
Musk scomunicato? Macché, sabato sera era di nuovo con Trump a New York, intorno al ring del campionato di ultimate fighting. Eppure nel clan di Mar-a-Lago continua il toto defenestrazione. Trump oggi sembra non poter fare a meno di Musk. Ma Trump è anche uno che giudica in primo luogo sulla base della fedeltà. E non può aver dimenticato che meno di due anni fa Musk lo aveva trattato da vecchio leader bollito, preferendogli il giovane governatore della Florida Ron DeSantis.
Mentre Musk farebbe bene a non dimenticare come, all’inizio del suo primo mandato, Trump fece fuori dalla cerchia dei suoi consiglieri Peter Thiel, una sorta di «gemello tecnologico» di Elon. Certo, Musk pesa di più e ha dato di più alla campagna. Ma anche Steve Bannon nel 2016 fu l’artefice della prima vittoria di Trump. Poi cominciò a presentarsi come l’uomo-chiave della nuova presidenza. Time lo mise in copertina col titolo «The Great Manipulator» e si chiese: «È Steve Bannon il secondo uomo più potente del mondo?». Pochi giorni dopo, lasciò la Casa Bianca.