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 2024  novembre 17 Domenica calendario

Intervista a Primo Levi


Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo uno stralcio di Incontro con Primo Levi (Luni editrice, pagg. 46, euro 10) di Attilio Zambon. Si tratta della trascrizione di un incontro avvenuto alla fine dell’anno scolastico 1974-1975 presso il Liceo classico Pietro Orseolo II al Lido di Venezia. Zambon era il preside del liceo, e aveva una storia simile, anche se meno tragica, a quella dell’ospite d’onore, Primo Levi. Zambon infatti era stato fatto prigioniero dai nazisti sul fronte francese e deportato nei lager del Terzo Reich. Anche il viaggio di ritorno fu una odissea paragonabile, e in parte addirittura sovrapponibile, a quella raccontata da Primo Levi nella Tregua. L’incontro si svolse in modo molto semplice. Levi rispondeva alle domande degli studenti e di Zambon. Ma ci fu anche un intervento toccante della «Signora Cipollato», anch’essa sopravvissuta alla persecuzione nazista nel lager di Auschwitz.

Studente Signor Levi, come si possono spiegare i terribili fatti avvenuti nei campi di concentramento nazifascisti?
Primo Levi Sì, è veramente una domanda molto difficile questa, perché a spiegarli per intero, che io sappia, non è riuscito nessuno. Di spiegazioni parziali ce ne sono, e sono tante, con radici molto lontane. A mio parere nella soluzione finale (nella Endlösung) della questione ebraica, proposta e attuata ampiamente e quasi completamente realizzata da parte di Hitler, confluiscono molte radici anche lontane: confluisce una radice xenofoba che fa parte della tradizione culturale e filosofica del popolo tedesco; confluisce una posizione, non dico antisemitica (che è sbagliato come termine) ma antiebraica da parte di diverse chiese cristiane in diversi periodi della loro predicazione; e confluisce la natura stessa e la storia del popolo ebreo a partire dalla sua dispersione che a sua volta ha radici molto lontane. Non so se sia possibile condensare tutto questo in un discorso breve, forse sarà meglio parlarne dopo, perché io ho dei limiti di tempo adesso, ho tempo fino a mezzogiorno poi devo sparire. Ma ho cercato di farlo io stesso questo lavoro, in un completamento di Se questo è un uomo che comparirà nella prossima edizione scolastica del libro medesimo. Ho cercato di sviluppare proprio questo discorso che ho condensato adesso in poche frasi. Questo mio tentativo finisce con le mani alzate, e non solo da parte mia; io a mia volta ho proseguito il mio lavoro di testimone, nel quale ho solo raccontato le cose che ho visto, che ho visto accadere, l’ho proseguito leggendo, vedendo molti libri e cercando anch’io di documentarmi. E ho visto che la maggior parte degli storici più seri fanno come me, cioè propongono diverse tesi, diverse interpretazioni e poi alzano le mani. Cioè nel nocciolo della questione dei campi di sterminio in Germania c’è qualcosa di incomprensibile, qualcosa di disumano, qualcosa di totalmente irrazionale che qualcuno ha voluto cercare nella persona stessa di Hitler, personaggio indecifrabile sotto molti aspetti, un personaggio che sconcerta tutti, che ha qualcosa di mostruoso, qualcosa di disumano; ma a mio parere è certamente troppo facile limitare tutto a questo, come molti hanno fatto da parte destra soprattutto, da parte di molti storiografi conservatori o addirittura neofascisti e neonazisti. Ci si libera facilmente della questione dicendo: Hitler era matto, un matto non si giudica, il nazismo non si giudica. Questa tesi mi par da rifiutare, perché è semplicistica; però che ci sia una componente personale in questo, penso che non si possa negare, e penso che sia questa la ragione per cui alle due frasi Mai più! Mai più? si possa sperare di fermarsi alla prima, perché il confluire simultaneamente di tutte queste componenti, compresa quella della follia individuale, proprio per ragioni di probabilità, è difficile che si ripresenti. 
Studente Pensa che gli ebrei furono una delle vittime dei campi nazifascisti, o l’obiettivo principale? E perché l’odio dei nazisti era diretto proprio verso gli ebrei?
Primo Levi L’odio nazista non era diretto solo verso gli ebrei, era diretto verso tutti. Basta leggere, e bisogna leggere, Mein Kampf, la mia battaglia, perché Hitler con tutti gli aspetti mostruosi che aveva del suo carattere, era un uomo coerente, che non ha mai cambiato di bussola, mai cambiato orientamento. Dagli anni disperati della sua giovinezza in Germania, fino alla catastrofe, non ha maicambiato indirizzo; e in Mein Kampf descrive abbastanza bene quali erano gli indirizzi del nazismo: erano quelli di conquistarsi uno spazio a Oriente, e quindi di farsi largo in Oriente. Considerava fin dal principio gli slavi come un popolo da sottomettersi, come un popolo destinato dalla Divina Provvidenza a fornire mano d’opera al popolo tedesco. Considerava tutti i neolatini come degliibridi, buoni in quanto conservano una quota di sangue germanico e cattivi in quanto invece questo sangue germanico era contaminato da sangue latino, o addiritturanegro: detestabile, per lui, questa presenza di sangue negro, anche degli arabi. E accanto a tutti e più in giù di tutti, il popolo ebreo che per lui rappresentava veramentel’anti-Germania, il nemico eterno della Germania. Anche nella sua incarnazione cristiana: anche il cristianesimoera antitedesco e doveva essere paralizzato, bloccato o addirittura distrutto. In questo suo mito, che aveva delle radici certamente irrazionali, però attingeva alla lunga tradizione di antisemitismo tedesco, il popolo ebreo figurava veramente come il grande nemico, a cui si attribuivano tutti i difetti e che doveva venire allontanatodal cuore del popolo tedesco perché era essenzialmenteestraneo dal popolo tedesco. Gli ebrei erano Volksfremde, erano estranei al popolo, erano addirittura secondo una teoria estremistica nazista degli uomini apparenti, cioè il loro aspetto umano era un inganno dei sensi: erano qualcosa di estraneo, non solo ai tedeschi,ma all’intera popolazione umana, e quindi dovevanoessere tolti. L’idea che questo toglierli, toglierli di mezzo, dovesse coincidere con l’eliminazione fisica è maturata abbastanza tardi, e non senza contrasti anche entro l’élite nazista; è maturata in sostanza nella conferenza di Wannsee, alla fine del ’41, quando alcuni, non so bene chi, probabilmente Goebbels stesso o Himmler, hannoproposto di essere coerenti fino alla fine e che questaeliminazione degli ebrei dalla Germania e dall’Europadovesse essere presa alla lettera, cioè essere un’azionefisica: che dovessero essere veramente distrutti. Ed è nato il celebre eufemismo della Endlösung, della soluzione finale. Era stato creato un eufemismo allo scopo che questa notizia non si diffondesse, perché ritenevano, giustamente, che fosse troppo indigesta anche per gli stomaci ben allenati del popolo tedesco, già profondamente inquinato da una propaganda che aveva quasi dieci anni di età. In seguito a questo, si è procedutoalla costruzione di campi di sterminio che eranoprincipalmente destinati agli ebrei. È vero che la storia dei campi di sterminio gronda del sangue di tutta l’Europa, perché sono nati allo scopo di

stroncare terroristicamente le opposizioni politiche. I primi campi di sterminio non erano diretti contro gli ebrei, erano diretti contro i tedeschi. I primi furono Dachau e Oranienburg, se non sbaglio, e sono costati parecchie centinaia di migliaia di vittime nei primi anni di potere del nazismo, nel ’33 e ’34: hanno decapitato proprio i movimenti di opposizione politica al nazismo, tutti i comunisti, i socialdemocratici, i partiti cristiani. Solo in un secondo tempo si è visto che questa macchina dei campi di sterminio poteva servire a un altro scopo, che era quello di fare sparire altre opposizioni esterne e non più interne; e in primo luogo questa opposizione ebraica che era tale per definizione, quantunque politicamente non ci fosse nessuna ragione seria di giudicare gli ebrei nei miti del nazismo. È chiaro che lo sono diventati abbastanza presto per ragioni di spaccatura, ma all’inizio non c’era nessuna ragione politicamente concreta di ravvisare nell’ebraismo europeo o in quello internazionale un nemico del nazismo. Con i dati che si posseggono oggi, si vede che non era così, che non è vero che il nazismo fosse esclusivamente una dittatura feroce di destra e gli ebrei fossero tutti quanti da considerare respinti nelle sinistre europee dalla parte del comunismo. Che molti ebrei fossero comunisti è vero, ma che fossero tutti comunisti non è vero affatto; anzi molti ebrei erano, in Italia, fascisti addirittura; e in Germania alcuni ebrei, stranamente, hanno addirittura aderito al nazismo nascente. Ad ogni modo (...) avevo trent’anni, e un figlio ampiamente maggiorenne, se non avessi avuto quel figlio, non sarebbero nati gli altri, perché certamente io sono diventato scrittore solo molto tardi, e solo quando mi sono reso conto che quel libro era vitale. E devo dire questo: che la mia vita privata ha dipeso fortemente dal destino di questo primo libro. Non è che lo preferisca agli altri, però, come dicevo, gli devo una certa gratitudine. Io l’ho scritto subito, devo dire che l’avevo già in mente addirittura quando ero dentro al campo di concentramento. Non si poteva scrivere, perché non c’era niente per scrivere; non avevo neppure un fazzoletto, non dico carta e penna, ma neppure un legaccio da scarpe, eravamo seminudi addirittura. Ugualmente, avevo molto chiaro in mente che desideravo sopravvivere, ma non sopravvivere e basta, sopravvivere per raccontare queste cose; e l’avevo in mente già là, quasi nella forma che hanno assunto dopo. Infatti, appena uscito, appena ritornato in Italia, mi sono messo a scrivere senza nessun piano, non ce n’era bisogno, senza nessun programma, nessuna scaletta; l’ho scritto al rovescio addirittura, l’ho scritto partendo dall’ultimo capitolo, e quasi esattamente al contrario. Ho trovato una certa difficoltà a pubblicarlo, per molti motivi, senza farne una colpa a nessuno. Lo stesso editore che adesso pubblica i miei libri, cioè Einaudi, me lo ha rifiutato, non per indifferenza o per stupidità, l’ha rifiutato perché il tempo non era maturo, perché l’Italia del ’46 era molto diversa dall’Italia di oggi, o di quindici anni fa, era un’Italia lacerata, un’Italia traumatizzata dalla guerra, un’Italia piena di ferite, in cui nessuno avrebbe accettato volentieri di leggere un libro che parlasse di altre ferite, e perciò Einaudi me lo ha rifiutato. Ho trovato poi un piccolo editore, cioè Franco Antonicelli, che ha accettato di pubblicarlo in una piccola edizione di 2500 copie, che si è venduta tutta, ha avuto delle buone recensioni, e poi è morta. E morta questa edizione, io mi sono messo a fare il mio mestiere di chimico per dieci anni, e non ho più pensato assolutamente a proseguire in questo mestiere di scrivere da testimone. E poi è successo un fatto curioso: nel ’55, cioè quasi dieci anni dopo questa prima edizione, si è fatta a Torino una mostra sulla deportazione, e mi hanno invitato a prendere parte insieme con altri deportati, prendere parte a questa manifestazione. E io ho risposto di no, perché avevo paura, non paura specifica di questo, paura del pubblico, io avevo una timidezza congenita, mi terrificava avere un microfono davanti, avere davanti un gruppo di più di dieci persone. Ho risposto di no, poi mi sono lasciato convincere molto a malincuore, ho accettato di farlo; e mi sono trovato davanti a un pubblico curioso, pieno di domande, pieno di curiosità. Tra l’altro mi hanno chiesto perché questo libro era morto, e allora l’ho riproposto questa volta all’editore Einaudi, e Einaudi lo ha accettato. Il libro ha cominciato a camminare con le sue gambe, cioè a pubblicarsi in edizioni successive, è stato tradotto in sette lingue; e questo mi ha dato coraggio a scrivere il secondo, e dal secondo è nato il terzo, e così via. Per questo motivo, sì, devo dire che preferisco il primo libro, perché è il primogenito, non per altri, perché il legame affettivo con gli altri libri è uguale per tutti.