il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2024
Il pozzo di Baldini, poesia con paese
Ho pubblicato un romanzo che parla di Raffaello Baldini, e ho cominciato a presentarlo a Bologna e a Santarcangelo di Romagna e lì, a Santarcangelo, dovevo parlare un’ora di un libro che era uscito il giorno prima, e che il giorno prima avevo presentato a Bologna, e avevo parlato mezz’ora e mi era sembrato di aver detto un quarto delle cose che avrei voluto dire e mi è venuto in mente Pascal, che una volta aveva mandato un libro a un suo amico e, nella lettera che gli aveva scritto si era scusato che il libro fosse troppo lungo. “Non ho avuto il tempo di farlo più corto”, aveva detto Pascal, e lì a Santarcangelo mi sono scusato anch’io che la presentazione sarebbe stata forse un po’ lunga.
Baldini ha vissuto per anni a Milano, lavorava a Panorama, la rivista, era responsabile della cultura, e a Santarcangelo tornava solo d’estate, eppure quasi tutto quello che ha scritto è scritto nel dialetto di Santarcangelo e le cose che succedono, nelle poesie di Baldini, succedono tutte a Santarcangelo; quando Pavese scrive “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”, sembra che parli di Baldini, della sua relazione con questo paese stupefacente dove sono nati altri due grandi poeti del Novecento, Tonino Guerra e Nino Pedretti.
Il titolo del mio romanzo, Chiudo la porta e urlo, viene da una poesia di Baldini che dice: “Che poi mi succede di rado, e non sente nessuno, nella camera cieca, di sotto, tra i panni sporchi, chiudo la porta, e urlo. Dopo sto meglio”.
Che non si capisce bene con chi sta parlando, questo signore, come tutti i personaggi di Baldini, che, in generale, non hanno amici, non hanno nessuno con cui parlare, per quello forse parlano da soli come i matti e, come i matti, hanno una relazione con l’universo, ho detto a Santarcangelo, e questa relazione è espressa in una lingua, io non conosco il dialetto di Santarcangelo, leggo Baldini nella traduzione in italiano che ha fatto lui stesso, e mi sembra un italiano così perfetto, ma non nel senso che è raffinato, nel senso che è perfetto. Faccio un esempio, la poesia L’ultima panchina: «Avranno avuto quattordici anni, lui quattordici, lei dodici, tredici, al viale della Fossa, seduti sull’ultima panchina, non m’hanno sentito, verso sera, pieno d’uccelli per aria, un chiasso, stavano lí, si guardavano, in silenzio, senza toccarsi, si guardavano, si guardavano, come incantati, e io pian piano, sull’erba, son tornato indietro».
Nella Morte di Ivan Il’iccˇ , di Tolstoj, Ivan Il’icˇ a un certo punto arreda l’appartamento che ha comperato, e ci mette «tutto quello che si trova di solito nelle case di quelli che non sono proprio ricchi ma che vogliono assomigliare a dei ricchi e finiscono così per assomigliarsi tra loro: damaschi, ebani, fiori, tappeti e bronzi, tutto scuro e brillante»; nell’appartamento di Ivan Il’icˇ, scrive Tolstoj, «c’era tutto quello che le persone di un certo ceto trovano per assomigliare a tutte le persone di un certo ceto. E da lui assomigliava talmente, che era come se non si vedesse niente, ma a lui questo sembrava, in un certo senso, un tratto distintivo».
Ecco.
Ci sono dei libri che son scritti così bene, in italiano italiano, damaschi ebani fiori tappeti e bronzi, che è come se non si vedesse niente.
Le poesie di Baldini, mi sembra succeda il contrario. Io non son mai stato nel viale della Fossa, ma mi sembra di vederlo, il viale della Fossa, e l’ultima panchina, e gli uccelli per aria, e loro che si guardano in silenzio e lui che, piano piano, sull’erba, torna indietro.
C’è un’altra poesia, La moglie, il cui protagonista ha più di cinquant’anni e si è messo con una ragazza che ne ha 23, e pensa di essere ridicolo ma «lei», dice «non ha una piega», che è un modo così bello, di rendere una ragazza di 23 anni, e, quello lì, non ha una piega, è un modo di dire di Santarcangelo, è parte della saggezza della lingua, come mia nonna che ha fatto la terza elementare, e l’italiano che parlava non era un italiano colto, lei il boiler, per dire, l’ha chiamato bolide per tutta la vita, la sua madrelingua era il dialetto di Parma, era la sedicesima di 17 fratelli e sorelle e mi diceva: «Paolo, a casa nostra c’era una miseria che quando siam diventati poveri abbiamo fatto una festa».
Ecco io, che sono uno che ha studiato, sono andato a scuola, mi son laureato, eppure anch’io ci sono delle parole italiane che non riesco a dire, come felicità, o amore, il verbo amare, ti amo io non son mai riuscito a dirlo a nessuno, e mi son chiesto perché poi, avevo più di quarant’anni quando l’ho capito, mi sono reso conto che queste parole in dialetto parmigiano non ci sono. Non si dice, in parmigiano, «Sono stato felice», si dice «A’ son sté ben», non si dice «Ti amo», si dice «A’ t’ voj ben», e «A mor», in dialetto parmigiano, non vuol dire «Amore», vuole dire «Io muoio».
Allora, la mia lingua, ho scoperto a più di quarant’anni, il pozzo delle mie emozioni, io l’ho scavato a Parma, e quando devo lavorare con loro, con le mie emozioni, devo usare le parole che ho sepolto a Parma, devo tornare a Parma e buttare giù il secchio in quel pozzo lì che ho scavato a Parma vicino a dove abitavo con mia nonna Carmela, non posso fare altrimenti.
E l’italiano, meraviglioso, di Baldini, mi sembra venga anche quello da un pozzo profondo che Baldini ha scavato nel centro di Santarcangelo dietro il Caffè Trieste, il locale dei suoi genitori, nella casetta dove abitavano le sue zie, Ines e Giuliana, che è un pozzo dal quale vien su una lingua, che, sentita oggi, anche lei, sembra nuova, non ha neanche una piega, come si vede, per esempio, da una poesia di Baldini che parla della morte, che è uno degli argomenti preferiti, di Baldini, e con quella finiamo e mi scuso per la lunghezza del pezzo ma non ho avuto tempo di farlo più corto: «Come, muori tutti i giorni, va’ a cagare, va’ là, morirai tu tutti i giorni, io, che sono più vecchio di te, ma non ci penso mai, non ci pensa nessuno, dài, su, se fosse come dici tu, ci sarebbe da diventare matti, poi io, tu di’ quello che vuoi, mi sento giovane dentro, son giovane di spirito, io, il mondo, ma anche tu, guarda il mondo, altro che morire, svegliarsi tutte le mattine, che pare niente, ma pensaci, non è una festa? Tutte le mattine avanti fino a sera, e vuoi morire, tu? lascia che muoiano gli altri, che poi muoiono sempre gli altri, ci hai fatto caso? E Molari, poveretto, è morto davvero, lui sabato ha tirato giù la serranda, con tutti i suoi soldi, che se li è goduti porca puttana, se n’è cavate di voglie, e be’, i soldi, ragazzi, però adesso lui è morto e io sono qui al Caffè Roma che mi bevo un bel vinello al selz».