il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2024
Biografia di Giampiero Mughini
Esiste uno stile alla Giampiero Mughini.
Le mani giocano un ruolo fondamentale: accarezzano i concetti, marcano il confine tra gradevole e inopportuno, proteggono gli aggettivi.
E poi la voce, i tempi, le pause, alcune frasi o interiezioni ripetute due volte come le canzoni di Guccini; le gambe che si accavallano, la schiena che si inarca. La sceslong di pelle che permette ogni evoluzione. L’abbigliamento, i suoi ricercati maglioni, le scarpe da ginnastica rosse, un bastone portato, pure lui, con un certo stile. Un’invasione di libri. Invasione reale. Ovunque. Su scaffali, tavoli, a terra, le scale, chissà dove ancora. Diga, o muraglia, o cordone di sicurezza modello manifestazioni anni 70 verso l’ignavia.
Giampiero Mughini è anche un meme prima dei meme: il suo «aborro», marcato, arrotato, prolungato, è stato imitato come solo una hit estiva.
Da poco è uscito il suo ultimo libro, Controstoria dell’Italia (Bompiani) dove lo stesso Mughini incrocia fatti personali con la storia del Paese.
Accanto al citofono, sul muro di casa, i nomi di Sciascia, Prezzolini, Marinetti e altri danno la “chiave” prima di suonare
Quanto ha impiegato per decidere l’elenco?
«Sono gli uomini presenti nella mia anima, i personaggi che hanno fatto la mia vita».
Alcuni delle nuove generazioni ritengono i classici non importanti.
«(silenzio) Ognuno faccia come gli pare, ho perso totalmente l’abitudine di suggerire, indicare. Ognuno viva la sua vita, commetta i suoi errori».
Ecumenico e aperto.
«Non ucciderei una persona perché ha un’idea politica diversa dalla mia. Eppure nella mia generazione è successo come niente».
Lunedì è morta la vedova Pinelli…
«E ho pensato… (pausa); le dico subito la mia opinione rispetto a quella tragedia».
Qual è?
«Che è semplicemente assurdo pensare che l’abbiano picchiato fino a portarlo alla morte; concordo con le conclusioni della famosa indagine guidata dal giudice D’Ambrosio: Pinelli si è avvicinato alla finestra alla fine dell’interrogatorio, poi si è sentito male ed è caduto».
Quella tragedia è parte diretta della sua storia.
«Vista la mia età, di morti ce ne sono tante».
Ha ricoperto un ruolo.
«Perché a 19 anni ho iniziato ad annusare questa roba qui».
Non è stato solo spettatore.
«Non lo sono stato neppure cinque minuti; a 21 anni ho fondato Giovane critica, una delle riviste che hanno creato l’atmosfera di quegli anni».
Era un leader?
«Sì».
Guidava un gruppetto.
«Prima uno di Catania, poi un altro si è formato a Roma con dentro Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Pigi Battista. Anche a Roma è nata una rivista, Pagina, quasi mai citata mentre era importante perché segnava l’allontanamento netto dalla sinistra».
Di quel gruppo a chi si sente ancora vicino.
«A tutti loro, compreso Paolo, anche se non lo sento mai: lui oggi è troppo importante rispetto alle mie cose; (pausa) la divisione tra sinistra e destra mi annoia».
Totalmente.
«Mi interessano le persone».
Così non c’è collante.
«Non appartengo a niente, non so autodefinirmi neanche professionalmente (arriva la moglie, Michela, si accerta di medicine e medici; pure rispetto a medicine e medici Mughini non manifesta grande interesse)».
La dedica del libro: «A Elio che continuò a volermi bene anche quando diedi l’“addio” ai compagni».
«La grande frattura della mia vita: dopo la pubblicazione di Compagni, addio ci sono state persone che non mi hanno più salutato; il mio professore dell’università disse a mia madre che non lo dovevo cercare».
Si aspettava queste conseguenze?
«A questo livello proprio no. Un’altra mia amica mi telefonò: “Ho letto il libro, e siccome ti sono legata, non ne parlerò”. Quel libro ha spaccato la mia vita».
Quanto vendette?
«All’inizio diecimila copie, ma è durato nel tempo; oggi su Amazon si trova a 120-140 euro».
Da lì è nato un nuovo Mughini.
«Non c’è dubbio».
Si è radicalizzato.
(Riflette, silenzio)
La radicalizzazione funziona.
«Al tempo non avrei utilizzato questo termine, al tempo volevo buttare fuori i primi dieci anni della mia vita e quello che non vedevo più; se oggi mi domandasse cosa mi annoia maggiormente, risponderei la politica partitante».
In che anno è arrivato a Roma?
«Gennaio 1970».
Che Roma era?
«Arrivavo dalla provincia dopo un viaggio su un vagone di seconda classe e senza una lira (“senza una lira”, lo ripete)…».
Sembra una canzone di De Gregori.
«Se è De Gregori mi fa piacere».
Dove dormiva?
«Il primo mese in casa di vari amici».
Di compagni.
«Meglio “amici”; il termine “compagno” è una cosa diversa. Dal secondo mese ho affittato una casa vicino a Campo de’ Fiori: sono diventato un uomo».
Tradotto?
«(sorride, ci pensa) Con le sue responsabilità, uno che sa quello che dice, che si bada la vita; sono arrivato con seimila lire in tasca e solo dopo vent’anni ho ottenuto uno stato economico, uno stipendio».
A Roma si è sentito meridionale o provinciale?
«Pensa che Sciascia si sia mai sentito tale?».
La città l’ha irretita?
«Non sono passato direttamente da Catania a Roma: prima sono stato due anni a Parigi, ero studente in Lingue e Letterature Moderne».
Al tempo conoscere le lingue straniere era un superpotere.
«Lo era, ma oltre le lingue anche tutto quello che c’è dietro, io rispetto alla cultura francese ho un atteggiamento venerante».
È in Ecce bombo di Nanni Moretti, come mai?
«Quando sono arrivato a Roma, nel gruppo di amici c’erano i due fratelli Moretti: Nanni e Franco, quest’ultimo professore di Letteratura negli Stati Uniti. Ero più amico di Franco. Poi Nanni scrive il suo primo film e i personaggi eravamo noi…».
Nel film oltre a lei c’è anche Minzolini. Entrambi avete lasciato la sinistra.
«Ognuno per la sua strada; con Minzolini non sono mai stato… non ero uno degli amichetti».
Nonostante il suo bagaglio culturale, la sua storia, viene ricordato per «aborro» e il tifo per la Juventus.
«La vita è così (lo ripete). E anche io, ogni tanto, me lo chiedo».
Le dispiace?
«Un po’, ma nulla di strano, in Italia i libri non contano nulla; sì, la gente mi dice “aborro”».
Il personaggio ha intaccato la persona o l’intellettuale?
«Se questa è la sua impressione (pausa); tutti si appigliano agli aspetti più facili, alle cose popolari. E per me di popolare c’è stata la Juventus. Ne sono felice».
Antonio Manzini spiega: ringrazio i libri su Rocco Schiavone e la sua fama perché così ho potuto pubblicarne altri che altrimenti avrebbero rifiutato.
«È proprio così (pausa); aborro… mi dicono aborro, eppure quel termine, in tutta la mia vita l’ho utilizzato una volta sola (quasi urla), lo giuro sulla testa di mio padre!».
È stato efficace.
«Una volta!».
Riguarda le sue ospitate in tv?
«Non me ne frega un beato cazzo, preferisco leggere un libro».
Da Sciascia a Maurizio Mosca ci vuole molto coraggio e curiosità.
«Una grande curiosità, e da sempre mi muovo su ambiti diversi; in questa stanza c’è solo una piccola parte dei miei libri».
Ha mai fatto una rissa?
«Mai toccato qualcuno con un dito».
Ha mai lanciato molotov?
«Nulla di nulla. Non amo la rudezza, preferisco la testa».
Con le parole lei riesce…
«La ringrazio. Ricordo la notte delle barricate di Parigi, quella storica (tra il 10 e l’11 maggio 1968) con un ragazzo che passava con una cesta piena di molotov. Non la presi, anche se non ero contro quelli che le lanciavano; ci sono 400 poliziotti francesi, feriti, che da quella notte non hanno più potuto lavorare».
Chi è la miglior espressione intellettuale della sua generazione?
«Adriano Sofri è di una grande intelligenza, anche se abbiamo litigato».
Intelligenza pura o manipolatoria?
«(sorride) Ha una casa piena di libri; oltre a Sofri dico Franco Piperno o i Quaderni piacentini di Piergiorgio Bellocchio».
Lei è una delle migliori espressioni intellettuali?
«Lo devo dire io? (sorride, poi ride)».
È mai stato seguito dai Servizi segreti?
«No, però a Catania hanno trovato una vasta documentazione dedicata alle mie attività».
I servizi segreti l’hanno mai contattata?
«Ma si figuri».
La massoneria.
«Sto molto per i fatti miei».
Qual è il vantaggio dell’esser diventato famoso?
«Niente di particolare. L’unica stranezza è stato passare da Giovane critica a Controcampo e Grande Fratello».
Ha rischiato di perdersi?
«No, mi sono divertito».
Pure al GF?
«Esperienza nuova, con personaggi giovani, che non avrei conosciuto in altre occasioni».
Intellettualmente?
«Perché gli intellettuali sono sempre così interessanti?».
A volte pallosi.
«E allora!».
Di cosa ha paura?
«Della noia, è terribile».
Della solitudine?
«Rafforza».
Anni fa ha lanciato un interrogativo: “Ma vale veramente la pena morire per Cesare Previti?”. Si riferiva a Forza Italia…
«Non voglio offendere nessuno, ma il dubbio viene. Oggi tutta la politica italiana assomiglia a Cesare Previti».
Ha detto ad Aldo Cazzullo che il narcisismo è stato un motore della sua vita.
«Per me è credere molto in quello che mi piaceva».
I suoi libri sono scritti in prima persona.
«È un modo giusto di rapportarmi al lettore».
Il giovane Mughini come giudicherebbe il Mughini ottantenne?
«Ne sarebbe orgoglioso».
Prima ha giurato su suo padre e non sua madre.
«Non c’è una ragione specifica; l’autorità, l’autorevolezza è riferita a lui. Papà era fascista».
Tra quarant’anni che fine farà la sua collezione di libri.
«Tutta a mia moglie, lei venda e viva come vuole. Non ho mai pensato neppure per un minuto di regalarla».
Un suo difetto che non sopporta.
«(silenzio lunghissimo) Domanda difficile. Ovvio che c’è. Ma a prima vista non mi viene (altro silenzio). Nei trent’anni di rapporto con Michela un paio di donne mi sono piaciute, molto, e non ne sentivo una colpa verso mia moglie; come ho spiegato prima, amo saltare di palo in frasca».
Se sua moglie avesse pensato lo stesso?
«Sarà successo, ne sono sicuro: ma figurati se in trent’anni non ha visto da vicino un altro uomo. È ridicolo pensarci».
È un artista?
«Nel mio genere, sì».
Le hanno mai proposto una candidatura politica?
«Non si sono arrischiati».
Se Sgarbi è diventato sottosegretario…
«Quello pur di stare in prima fila farebbe la ballerina; (pausa) è un mio amico».
Lei chi è?
«Una brava persona. E ci tengo tanto. È un’ossessione».