la Repubblica, 17 novembre 2024
Nella fabbrica in crisi dei passeggini made in Italy “È l’effetto culle vuote”
Dove sono finiti i bambini? Al pianterreno del Comune di Arcore il sindaco Maurizio Bono apre una delle scatole di cartone accatastate in un angolo: «Qui c’è il buono omaggio per il supermercato e il buono sconto per le farmacie, poi il telo per i neonati… è il kit di benvenuto per il piano “Arcore formato famiglia”». Lui la battaglia contro l’inverno demografico l’ha già vinta in casa («due gemelle, oggi hanno nove anni» ), ma ora rischia di perderla nella cittadina di 18mila abitanti dove ogni anno muoiono in duecento e nascono solo in cento.
A meno di un chilometro, nel megastabilimento anni ’70 stamattina mezzo vuoto, anche proprietari e maestranze della Peg Perego si chiedono, con più prosaiche e globali preoccupazioni, dove siano finiti i bambini. Quelli italiani – l’anno scorso 379 mila i nuovi nati, il 3,6% in meno del 2022 – e più in generale quelli di un mondo che poteva permettersi carrozzine, passeggini e giocattoloni a ruote pagando qualcosa in più per assicurarsi marchio e qualità. A marzo Peg Perego, già perla del made in Italy, già pilastro della comunità locale, già rappresentante della Brianza più produttiva, finirà i 5 anni di cassa integrazione e – a meno di colpi di scena – consegnerà 104 lettere di licenziamento ad altrettanti operai sui 263 che oggi lavorano qui. La maggioranza donne.
Nel 2021 Peg Perego fatturava 135 milioni e ne guadagnava oltre 5; nel 2022 il fatturato era sceso a 124 milioni e l’utile a 380 mila euro; lo scorso anno, fatturato appena sotto i 105 milioni e una perdita di oltre tre. Culle vuote, ma anche devastante concorrenza cinese e guerra dei prezzi, gusti e bisogni dei consumatori cambiati. Le ragioni sono tante, il risultato uno: conti in rosso e linee di produzione ferme due giorni su cinque nello stabilimento che – narra la storia – fu all’inizio villetta dei suoceri del “Signor Giuseppe”. Giuseppe Perego, ovviamente, che nel 1949, lasciato il lavoro di disegnatore industriale alla Falk, passa dai primi lavori di metallo a un’innovativa carrozzina per il figlio Lucio appena nato. Nell’Italia del boom Peg Perego diventa un grande marchio, nei decenni si trasforma in una multinazionale tascabile con sedi negli Usa, in Canada, in Brasile, dove produce con il marchio Burigotto, mentre quel bambino in carrozzina diventa presidente della società.
Ora il quartier generale di Arcore – la fabbrica e gli uffici, la Cascina San Giovanni dove i dipendenti hanno il pasto a due euro, il nido e scuola dell’infanzia “Giuseppe e Ines Perego” con l’aula per la psicomotricità – pare un abito troppo grande per un corpo che si è rinsecchito anno dopo anno a partire dal 2018. In azienda porte serrate e bocche che non si aprono volentieri. Eppure, solo qualche anno fa si organizzavano open day per i prodotti rigorosamente italiani, rigorosamente a rotelle: fossero la carrozzina- passeggino-ovetto Trio, l’innovativo passeggino pieghevole per la città, o il Gaucho XP, “fuoristrada elettrico per bambini dalle prestazioni estreme”, che a listino sta a 689 euro.
«Il tema sono i costi di produzi one – è la voce dell’azienda, con la richiesta di evitare nomi e qualifiche –. I prodotti cinesi che costano meno stanno invadendo il mercato e ormai i cinesi cominciano ad acquistare brand europei. Noi abbiamo sempre voluto produrre al 100% in Italia, anche rinunciando a parte dei margini». Nessun accenno alla concorrenza, ma in Veneto la Inglesina della famiglia Tomasi, che da tempo produce anche in Cina con conti decisamente migliori, ha appena rilevato il marchio inglese Maclaren.
Sei chilometri di Brianza – autoarticolati e betoniere, strade riasfaltate di fresco e code ai semafori, capannoni di logistica e outlet – ed ecco la Camera del lavoro di Vimercate. Adriana Geppert della Cgil-Fiom, che segue la vertenza Peg Perego con la collega della Fim-Cisl Gloriana Fontana, spiega che sì, ci sono le difficoltà di scenario, ma l’azienda avrebbe dovuto muoversi prima: «Anche all’ultimo tavolo abbiamo chiesto un piano industriale. Se nascono meno bambini, ci sono più anziani, più persone con animali domestici, più attenzione al riciclo. Perché non convertire alcune produzioni alla terza età o al mercato dei pet, che ormai tanti portano in passeggino?». La risposta? «Che la diversificazione l’hanno già fatta, aggiungendo ai passeggini i giocattoli. E che in futuro, viste le difficoltà, intendono importare più prodotti dalla Cina». Qualcosa, in effetti, c’è già. Come un pieghevole “primo prezzo”, venduto col marchio “by Peg Perego”.
Mercoledì un nuovo incontro: si cercano soluzioni, s’interessa la Regione, ma è difficile che il destino delle 104 persone – già oggi con stipendi tagliati attorno ai 1.400 euro dalla cassa integrazione – sia diverso dal licenziamento. Assieme e attorno alla crisi dell’azienda ce n’è però una più profonda. Dici Arcore ed è Berlusconi: qui una volta era tutto sole in tasca. Dici Brianza ed è imprenditoria, per definizione rampante. Così le difficoltà aziendali si trasformano in un muro di ritegno, quasi vergogna: «Meno scrivete e meglio è, il rischio è dare un’immagine negativa alla clientela». E l’impiegata che esce dalla pausa pranzo a Cascina San Giovanni con lo yogurt per il pomeriggio ha solo una dichiarazione da fare: «Non faccio dichiarazioni». Ma i cento probabili licenziamenti? «Lo dicono i sindacati». Non solo loro. Anche l’azienda e i numeri, in questa Lombardia dove l’inverno delle culle è tutto l’anno.
Due passi e si è a Villa San Martino, la Versailles del berlusconismo. Di fronte un piccolo parco giochi, deserto anche in questa mattina di sole. Dove sono finiti i bambini?