la Repubblica, 17 novembre 2024
Cinquantatré anni or sono se ne andava da questo boia di mondo Luciano Bianciardi, se ne licenziava in via definitiva nel peggiore dei modi, nell’unico che gli era congeniale, corroso dalla cirrosi, consumato dall’alcolismo, e sia chiaro, alcol di grappa, non di whisky single malt, non di barolo e non di brunello, non di camparini e non di vermutini, ma del buon vecchio veleno proletario, quello con cui i minatori ne avvantaggiavano di tre dita il caffè per darsi la spinta al turno nel pozzo, e se da qualche parte ci sono ancora minatori credo proprio che lo facciano ancora, ci vuole del veleno per salvarsi almeno un turno da una fatica mortalmente velenosa
Cinquantatré anni or sono se ne andava da questo boia di mondo Luciano Bianciardi, se ne licenziava in via definitiva nel peggiore dei modi, nell’unico che gli era congeniale, corroso dalla cirrosi, consumato dall’alcolismo, e sia chiaro, alcol di grappa, non di whisky single malt, non di barolo e non di brunello, non di camparini e non di vermutini, ma del buon vecchio veleno proletario, quello con cui i minatori ne avvantaggiavano di tre dita il caffè per darsi la spinta al turno nel pozzo, e se da qualche parte ci sono ancora minatori credo proprio che lo facciano ancora, ci vuole del veleno per salvarsi almeno un turno da una fatica mortalmente velenosa.
Lui, Bianciardi, non era un minatore, era uno scrivano, un autore, un lavoratore delle lettere, ma dai minatori del suo paese, quelli bruciati vivi e quelli che arsi di dentro ancora vivevano, aveva ricevuto un sacro mandato: non tradirli mai, per nessuna ragione. E così è andata, anche se il suo lavoro lo teneva sempre sul filo del tradimento, anche se la missione vendicatrice che gli avevano assegnato era finita nel fallimento, perché quel puttanaio di Milano dove s’era andato a cacciare a «sfangare venti cartelle al giorno» gli lasciava appena la forza «per non farmi mangiare dalle formiche». Io lo so, lo ricordo bene dov’ero quel 14 di novembre del 1971, avevo vent’anni appena compiuti e intanto che lui moriva io mi prendevo la mia razione di manganellate da un solerte tutore della pubblica sicurezza, e questo nell’ambito di una rivoluzione da poco fiorita e già con dentro la larva del parassita che l’avrebbe fatta appassire. Perché la rivoluzione è un lampo e poi è subito reazione; se la rivoluzione diventa governo è già fallita, parole sue di Bianciardi, perla di saggezza imperitura. Io quel giorno non sapevo niente di lui, né che stava morendo, né di come era vissuto e perché, figuriamoci se avevo mai letto una riga sua.
Se l’avessi fatto, se avessi anche solo ascoltato le parole sue sulla rivoluzione, ora come ora sarei in galera, ai ferri, controllato a vista da Baffidisego, ancora sotto interrogatorio dell’Imperial Intendente. Perché? Perché gli avrei dato retta, e alla testa, o anche solo in coda, di un pugno di prodi avrei assaltato la banca più grande che c’è, avrei cavato via tutti i soldi, si parla di tonnellate e tonnellate di cartamoneta, dobloni, zecchini e giorgini, li avrei caricati su un aereo precedentemente sequestrato alla compagnia di linea nazionale e li avrei equamente scaricati su tutto il territorio nazionale, così che il popolo se ne sarebbe spartito il bottino e avrebbe smesso di lavorare. Che questa è l’unica rivoluzione seria e definitiva, perché è la madre di tutte le menzogne del sistema che il lavoro rende liberi, il lavoro rende schiavi. Allora come oggi.
In galera sì, ma non morto, oh, no, non morto per man mia. Perché c’è una gran differenza tra il sottoscritto e Luciano Bianciardi; lui era figlio della piccolissima borghesia istruita, ed era così colto lui stesso da aver coscienza della tragedia in tutta la sua irriducibile vastità, io sono figlio dell’arretratezza contadina, e qui l’imperativo è primum vivere, altrimenti si muore in fasce, altrimenti non c’è modo di intendersi con la materia che ci nutre, altrimenti saremmo estinti da un pezzo, e l’estinzione è una faccenda che non ci compete, che non riusciamo nemmeno a capire; siamo animali tra animali, verzura tra la verzura, sassi tra i sassi, una specie che si evolve nella resistenza alle avversità climatiche.
È per questo che sono ancora qui, che ci sono nonostante tutto il merdaio pre e post globale, neoliberale e ultraliberale, thatcheriano e renziano, nel riflusso e nel reflusso, nella fossa biologica in cui ho navigato per arrivarci; che ci sono anche se, gira e rigira, ho finito per fare il suo lavoro di scrivano, a sfangare non dico venti cartelle, ma tre o quattro al giorno.
Sempre sull’orlo del tradimento, perché ce l’ho avuto consegnato anch’io un mandato, mai tradire, mai per nessuna ragione dimenticarmi da chi e da cosa sono venuto, e per quanto possibile, data la mia complessione cagionevole, vendicare. E dopo un paio di giorni a Milano e un paio di contratti, buoni contratti, anch’io mi sono trovato con la forza sì e no di non farmi mangiare dalle formiche. E, sì, al secondo contratto anch’io mi sono attaccato alla bottiglia, era whisky Teacher, di quelli molto economici ma un filo meno mortali della grappa; siccome il mio comandamento numero uno è come dicevo primum vivere, mi ci sono staccato vigliaccamente giusto in tempo.
Milano da bere, Milano che uccide di lavoro culturale; dicono di Luciano Bianciardi che fosse un intellettuale libero in un mondo non libero, se mai io sono un intellettuale, ed è tutto da vedere, non mi sento libero da niente in un mondo libero, totalmente libero di essere e fare le peggiori cose. Eppure almeno in qualcosa sono come lui, spiccicato; sono rimasto un teppista, un teppistello attempato, con la giacchetta tenuta sulla spalla e il passo zoppo e svelto, con la sigaretta stretta tra le labbra come una bestemmia, giocondo e rabbioso oltre ogni benevola sopportazione. Narra la leggenda che il suo babbo al compimento dell’ottavo compleanno gli regalasse un libro, I Mille, del Giuseppe Bandi, un libro fatale. Se lo lesse tante volte da impararlo a memoria, era un bimbo e non poteva saperlo, ma in quel libro c’era il suo destino. Differentemente dall’Abba e dagli altri memorialisti “istituzionali”, il Bandi scrisse un memoriale sincero della sua avventura nella più grande impresa rivoluzionaria dell’Europa ottocentesca.
Il Bandi era un grossetano, un mazziniano e dunque estremo repubblicano, un ribaldo e un gagliardo teppista, un garibaldino di indomabile affezione. Ma era anche un romanziere, uno scrivano di gazzette di grande carriera, e ritenendo di onorare il successo in quel ramo velenoso, finì per tradire il mandato della sua camicia rossa, si fece conservatore e realista savoiardo, antisocialista e antirepubblicano; gli rimase solo una patetica e spossata nostalgia per tutto ciò che era stato e un amore sentimentale e possessivo per coloro che si era lasciato alle spalle. L’amore che portò Giuda al suo fico, il fico del Bandi fu il pugnale di un anarchico. Luciano Bianciardi s’è appassionato del Bandi e io come lui, ma lo amiamo fino a Teano, fino al suo pianto, e al pianto di tutto lo stato maggiore garibaldino, quando si vede schierati in linea avversa con i moschetti puntati i quarantamila dell’esercito sabaudo, e sa che quella è la fine della rivoluzione italiana. E lui e io stesso non ci siamo mai smossi dal pianto di Teano.
Bianciardi ha vissuto nel terrore di rimangiarsi quel pianto fino a sopprimersi perché fosse chiaro che nulla e nessuno aveva potuto strozzarglielo in gola, e io sono ancora qui nel terrore, con le mie lacrime in mano. Giovanni Arpino ebbe a dire che Bianciardi è stato l’ultima camicia rossa, e io dico che no, che è stato la penultima. L’ultima al momento è il sottoscritto, il sopravvissuto che ancora ha i moschetti sabaudi puntati contro, ancora frigna sulla fine della rivoluzione italiana.
C’è una colonna sonora per tutta questa scena, l’ha scritta Charlie Chaplin, è la musica struggente di Luci della ribalta, il disco che il Bianciardi metteva su per annunciare l’arrivo del suo camioncino biblioteca ambulante.