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 2024  novembre 17 Domenica calendario

Pierluigi Panza ripercorre i due secoli e mezzo della Scala in un saggio

Milano è la Scala e la Scala è Milano, un mito diventato linguaggio come il Duomo e Sant’Ambrogio, che identifica la città, la rappresenta, l’avvolge in un mantello di fama mondiale, ne fa la capitale indiscussa della lirica, del balletto, del teatro d’opera, riflette una certa società milanese «che ama mostrarsi più preoccupata del fare che dell’apparire», dice il sovrintendente Dominique Meyer. Alla Scala non ci sono colonne, né scale maestose, né ostentazioni del lusso (ad esclusione dei gioielli e delle mise della «prima»), l’edificio è sobrio ed equilibrato, non è maestoso o imponente come il Bol’šoj, il Met, il Palais Garnier o il Nationaltheater di Monaco ma, una volta dentro, colpisce la sua bellezza, l’equilibrio formale, l’emozione di essere parte di una storia che cambia per non cambiare, sperimentando nuove tendenze, mantenendo salde le radici.
Dal giorno dell’inaugurazione il legame che unisce la Scala, l’architettura e la città si è rafforzato fino a diventare indissolubile, come documenta con meticolosa precisione Pierluigi Panza in La Scala. Architettura e città (Marsilio Arte), raccogliendo le migliaia di carte custodite in archivi e biblioteche, riordinando le tante trasformazioni dell’edificio con mappe, disegni, cartografie che si collegano al vissuto di un teatro che è stato neoclassico, romantico, verista, contemporaneo, universale e infine digitale.
Il più bel teatro del mondo, scrive Panza citando Stendhal, nasce da due distruzioni e due rifiuti in una Milano ancora adolescente, raccolta in un fazzoletto attorno al Duomo dove signoreggiavano le carrozze a cavallo e sul palazzo del governatore campeggiava l’aquila imperiale. Era la Milano del dispotismo illuminato di Maria Teresa d’Austria, riformatrice del catasto, ispiratrice del Naviglio Pavese, della Braidense e dell’Accademia delle Belle arti di Brera, che istillava sentimenti patriottici nel «Caffè» di Pietro Verri e nell’Accademia dei Trasformati di Carlo Imbonati... Una Milano che cercava con la cultura e l’arte la via d’uscita «dalle siepaglie da cascinale celtico», come annoterà Cesare Cantù, e andava a teatro nel Palazzo Ducale che poi diventerà Reale.
La prima distruzione avviene qui: il teatro Ducale è incenerito dalle fiamme. La seconda distruzione un po’ più in là: viene abbattuta la chiesa di Santa Maria alla Scala per far posto al nuovo teatro. I rifiuti arrivano da due fronti. Il primo è quello del maggior architetto dell’epoca, Luigi Vanvitelli, progettista della Reggia di Caserta. Disdegna l’invito di Maria Teresa d’Austria e del governatore Carlo Giuseppe di Firmian: la sua proposta è giudicata troppo onerosa dalla corte austriaca. Vanvitelli manda così il suo protetto, Giuseppe Piermarini. Il secondo rifiuto viene dal musicista Christoph Willibald Gluck per la serata inaugurale: è impegnato con l’Opera di Parigi. Al suo posto arriva il giovane compositore di corte, Antonio Salieri. La sua opera, L’Europa riconosciuta, inaugura la Scala il 3 agosto 1778.
«Il teatro spira grandezza e incanto», si legge sui fogli d’epoca. La facciata neoclassica con l’interno austero, lineare, elegante, raccoglie subito consensi. È il momento del Piermarini. Di teatri viene chiamato a progettarne un secondo, più popolare, su volontà dell’arciduca Ferdinando, figlio di Maria Teresa. L’area è quella delle scuole Canobbiane, tra la contrada Larga e l’altra detta delle Ore: diventerà il Lirico.
Quando l’Austria chiede ai palchettisti milanesi di concorrere alla spesa per la Scala, l’aristocrazia non batte ciglio: il teatro è usato come succursale di casa. La sala con sei ordini di palchi, il loggione e la platea, può contenere fino a 3.500 persone. I colori dominanti sono il grigio, il turchese e l’oro. Nel tempo diventeranno rosso, avorio e oro. Nel ridotto ci sono ristoranti, una bottiglieria, qualche alcova per le distrazioni amorose. Si mangia e si cucina: il sacro tempio della lirica odora anche di rosticceria. Al secondo piano c’è una bisca, si gioca d’azzardo fino all’alba. È stagione di balli celebrativi, feste mascherate e circensi. Il loggione è temuto e famigerato. L’acustica è la stessa che Toscanini troverà nel 1946, nel giorno della rinascita dopo le bombe e la ricostruzione, quando al toc toc della bacchetta reagisce con queste parole: «È la Scala, è la mia Scala…».
Non è un teatro comune. È testimone del tempo, dei cambi di scena politici, culturali, rivoluzionari: via gli austriaci, ecco i francesi. Il 29 maggio 1796 alla Scala si suona La Marsigliese: addio all’Ancien Régime. Pochi anni e Milano ritorna dépendance austriaca. Poi sarà vetrina del Risorgimento, e dal loggione piovono i volantini con la scritta «Viva Verdi», dopo il Va, pensiero del Nabucco.
L’Ottocento, la Scapigliatura, l’elogio di Stendhal, i trionfi verdiani, la giovane scuola pucciniana, i fischi, le rivalità in scena, i grandi tenori, le primedonne, i grandi direttori d’orchestra, il temuto loggione, la contestazione con le uova sulle pellicce della «prima»… Con la mano del critico e la sensibilità dello storico dell’architettura, Panza ripercorre le tappe di un teatro infinito, la tipologia che registra continui aggiornamenti e aggiustamenti, i delicati passaggi di consegne, gli avvicendamenti di architetti e scenografi. Tutto deve essere funzionale all’illusione scenica: le scenografie dipinte, i trompe l’oeil utilizzati come fondali, gli effetti elettronici e illuminotecnici. Il teatro deve adattarsi ai cambiamenti, è costretto a darsi continuamente nuove impostazioni.
«La rivisitazione storico morfologica della Scala proposta nella lettura di Pierluigi Panza diviene un prezioso strumento identitario del nostro vivere in città, a fronte dei veloci mutamenti che siamo chiamati ad affrontare», scrive Mario Botta nell’introduzione. È del grande architetto di Mendrisio l’ultima modifica, che deva adeguare la torre scenica, la sala prove, gli spazi per le prove d’orchestra e portare il palcoscenico a misurare 70 metri, come sette tram in fila. La sorpresa è il cilindrone che sovrasta l’edificio, un ellisse, chiosa Panza, «come un cappello a cilindro posto in testa alla Scala», quasi un omaggio al quadro di Verdi dipinto da Bodini. Prima ancora c’era stato il restauro, durato due anni, il teatro smontato e rimontato alla perfezione, per creare nuovi spazi, per attrezzarsi all’età del digitale.
«È uno dei maggiori interventi alla Scala dopo Maria Teresa d’Austria», dirà il sindaco Gabriele Albertini. È anche la quinta vita di un teatro che nel 1945 le bombe su Milano avevano ridotto a un cumulo di macerie e che in un solo anno la città ha saputo e voluto ricostruire. La Scala è un archetipo di territorio della memoria che ci appartiene, riassume Botta, nel mezzo delle contraddizioni che stiamo vivendo: pandemia, cambiamenti climatici, problemi energetici, perfino una guerra alle porte d’Europa. Un teatro da leggere come storia infinita, di architettura, arte e musica, uno spazio dei sogni che parla da Milano al mondo.