Avvenire, 16 novembre 2024
Sugli inizi, o elogio dell’esitazione
Adifferenza del classico romanzo giallo, alla fine di questo brano l’assassino non verrà acciuffato, né il delitto svelato. Il segreto rimarrà segreto, e tutto ciò ha un che di bello.
Ho scritto poesia e prosa, pièce teatrali, sceneggiature, critica, studi letterari, tesi di dottorato, oltre quattrocento testi di pubblicistica, testi commerciali; da oltre vent’anni collaboro con la rivista Literaturen vestnik e a volte penso di aver letto più manoscritti che libri; ho seguito corsi di scrittura creativa, ho insegnato. E dopo tutto questo posso dirlo francamente. Scrivere non diventa mai più facile. Ogni volta cominci da zero con tutte le tue paure e preoccupazioni, con tutte le tue esitazioni.
E proprio dall’esitazione vorrei cominciare. Perché è l’inizio. Viviamo in una cultura che non tollera l’esitazione. Tutti i libri sull’autoaffermazione sottolineano l’importanza di irradiare sicurezza, di dimostrarsi consapevoli di ciò che si vuole e di seguire con convinzione il proprio piano. Diversi scrittori sostengono che quando si mettono a scrivere sanno già tutto dei loro personaggi, sanno precisamente come partirà e finirà il loro romanzo, sanno perfino la prima e l’ultima frase. Suona alquanto sconfortante per chi proviene dalla scuola degli ignari, di cui faccio parte. Se dovessi formulare una sorta di consiglio: non evitate l’esitazione, non ne abbiate timore, sviluppate i vostri dubbi, le ipotesi collegate con ciò che state scrivendo. L’insicurezza terrà tutte le strade davanti a voi e il vostro testo aperti. Trovo che l’esitazione sia lo stato più naturale della persona (e di chi scrive), un tratto della sensibilità, che è quanto di più importante nell’attività di scrittore. Da qui nasce questo Elogio dell’esitazione. Non credo molto alla gente che conosce tutte le risposte, tutte le mosse, e non dubita di quello che fa.
La categoricità è sempre sospetta e limitante. D’altronde lavoriamo con quella delicata, sfuggente e ambigua materia che è la lingua. A proposito, una delle epigrafi che ho inserito in Romanzo naturale recita: “Vorrei che qualcuno dicesse: questo è un bel romanzo perché è intessuto di esitazioni”.
Parlando di lingua, affondiamo un attimo le dita nel suo fiume. Sono sicuro che chiunque scriva abbia provato la gioiosa sensazione di lasciarsi trasportare dalle acque della lingua, dalla sua corrente. Devi soltanto tenerti saldamente sopra le sue acque e seguirla. A volte somiglia al rafting, allo scendere un fiume rapido e pericoloso, con i vortici. A volte scorre in modo lento e tranquillo, si spiega in tutta la sua vastità. Qualcuno di-rà che la lingua è importante anzitutto nella poesia, la prosa è mossa da altre cose, lì la lingua è soltanto uno strumento al servizio della fabula. La mia esperienza è diversa. Io provengo dalla poesia e in effetti non l’ho mai abbandonata. È chiaro che la stesura di un componimento poetico e di un romanzo sono due discipline diverse. Nella poesia abbiamo distanza breve, inizio esplosivo, tensione fino alla fi-ne, muscoli, tendini, velocità, sforzo portato al limite. Nella prosa la distanza è lunga, a volte ci sono sezioni prolisse e noiose, distrazioni, eccetera. La questione più importante è come mantenere il proprio ritmo e respiro per un tempo maggiore. A lungo ho praticato entrambe le discipline, letteralmente, non metaforicamente, e quando venne il momento di sceglierne una sola, smisi.
Ci sono romanzi che sembrano fatti di interi blocchi (capitoli, paragrafi) e romanzi fatti di frasi. I secondi per me personalmente sono più interessanti. Sono scritti da una persona che della lingua ne sa.
Mentre scrivevo il mio primo romanzo ero assolutamente libero, non perché sapessi come si faceva, niente affatto, l’esatto contrario. Era la mia prima esperienza e avevo diritto a fallire. Questo è un diritto molto importante, usatelo senza timore all’inizio. Rende liberi. In effetti tutta quest’arte è un’incessante camminare sull’orlo del fallimento.
Quando mi misi a scrivere il mio romanzo sul finire di un’estate avevo idee confuse, sapevo che non sarebbe stato il classico tipo di narrazione, che volevo “un romanzo fatto di tutte quelle cose che di solito non entrano nei romanzi”. Che sarebbe stato un romanzo di disgregazione, privata e pubblica, il romanzo della disgregazione di un matrimonio sullo sfondo della disgregazione degli anni Novanta. Avevo circa una ventina di quaderni e agende, in cui da anni mi appuntavo le cose più disparate. Penso che l’“anarchismo” di quel romanzo sia dovuto in parte anche a quei taccuini di appunti disordinati da cui è nato. Lo scrissi alquanto velocemente, in circa tre mesi di lavoro quotidiano. Ma i taccuini che ho utilizzato erano stati scritti in un periodo di 7-8 anni. La mia felice scoperta giunse attraverso la botanica e la Storia naturale, quella complessiva, appassionata, collettiva descrizione del mondo. Così scelsi il genere: Romanzo naturale è tanto titolo quanto genere. Inserii nel testo stralci dai manoscritti scientifici di Linneo, oggi suonano come un romanzo. Ovviamente l’espressione “romanzo naturale” è un ossimoro, nessun romanzo è naturale. Questo libro più che altro prova nostalgia per il romanzo del XIX secolo o per la sua stessa concezione: lento, denso, con inizio, svolgimento e fine, con chiare cause e conseguenze. Descritto da Stendhal come lo specchio con cui cammini per strada e rifletti il mondo. Solo che lo specchio da tempo si è rotto in piccoli pezzettini. Vediamo il mondo attraverso questi frammenti, non abbiamo una storia completa e coerente. Le nostre stesse storie sono storie di rotture, fallimenti, di punti sotto silenzio. E perciò il trauma principale, tema e soggetto del romanzo era come raccontare le cose che non possono essere raccontate. Come parlare tramite incessanti frammentazioni.
E tuttavia, se dobbiamo riassumere cosa rimane alla fine in quanto unità minima di vitale importanza per ogni scrittore, direi: una sensibilità e un’empatia estreme verso tutto ciò che fa male, ferisce o rende felici. Non solo il tuo corpo, ma anche il corpo del mondo. E una diabolica sensibilità per le parole, per il miracolo della lingua. Niente di più, niente di meno.
Traduzione dal bulgaro di Giorgia Spadoni