la Repubblica, 16 novembre 2024
Intervista a Nicola Piovani
Il maestro Nicola Piovani, una storia immensa tra quattro David di Donatello, altrettanti Nastri d’argento, un Oscar (per le musiche deLa vita è belladi Roberto Benigni) e vari altri premi di ogni tipo, ha idee molto chiare sulla musica di ieri, oggi e domani. Ma, soprattutto, le sue non sono idee consuete. Il suo libro è un avviso allarmante, a partire dal titolo:La musica è pericolosa.Non è un libro nuovo ma, proprio per questo, lo è ancora di più: «Era scomparso, l’ho voluto riportare alla luce», spiega.In che senso era scomparso?«Guardi, questo è il mio primo libro, anzi l’unico. Avevo avuto esperienze con i discografici che mi sembravano cialtroni. Poi, conosciuti gli editori di libri, ho rivalutato i discografici. Era scomparso, per vari cambi societari. Allo scadere dei diritti me ne sono riappropriato e, quando Elisabetta Sgarbi mi ha proposto di collaborare con La Nave di Teseo, con gioia abbiamo aggiunto qualche ritocco e un capitolo finale».Perché la musica è pericolosa?«È una frase di Federico Fellini. L’ho visto commuoversi e turbarsi fino ad avere gli occhi lustri ascoltando poche battute di un motivetto malinconico. Aveva una grande e vulnerabile sensibilità musicale, la musica lo impauriva perché, diceva, “non parla di nulla, non ha contenuti, eppure è capace di strangolarmi di emozione”. Per lui il mistero della comunicativa musicale era inquietante e, appunto, pericoloso».Condivide l’affermazione?«Beh, l’ho scelta come titolo del libro un po’ come un piccolo omaggio al grande artista ma anche perché, paradossalmente, metaforicamente, è una frase che mi appartiene. È riferita alla pericolosità gioiosa che c’è in ogni nostro incontro con la bellezza. Personalmente penso a una bellezza musicale, ma può valere per altre bellezze d’arte. Mi riferisco all’ascolto profondo, attento, riflessivo; non a quello superficiale, edonistico, consumistico».Quanto è difficile il rapporto tra musicista e regista?«Mi sono trovato più o meno bene con tutti e ho sempre lavorato con grande rispetto per tutti i registi, che sono i primi autori del film. Da quelli con cui non ho trovato un minimo di sintonia ho preso le distanze, mollando il lavoro. Ma naturalmente non faccio nomi».Racconta molte cose interessanti su Fellini con cui ha lavorato spesso. Evidentemente conosceva bene l’animo umano dal momento che riusciva a far sentire chiunque frequentasse il migliore: il miglior costumista, il miglior musicista, il miglior amico.Lo faceva per ottenere il meglio da loro?«E chi lo sa? I suoi comportamenti erano spiazzanti, sembravanoimmediati, spontanei, ma nella vita quotidiana in lui c’era sempre qualcosa di imperscrutabile e fascinoso. Sono convinto che fosse molto sincero anche quando raccontava balle immaginifiche. E meravigliosamente, nel parlare, dava pochi giudizi, non era quasimai sentenzioso. Ecco, il suo libero pensiero oggi mi manca, di questo ho un po’ di nostalgia: il pensiero diffuso nel mondo che frequento adesso è molto schiacciato sul giudizio continuo, su buono/cattivo, giusto/ sbagliato; sulle pagelle, sulle classifiche. Tuttotende a somigliare a un derby, anche le riflessioni sulle tragedie più paurose del pianeta».Può esistere una musica “oggettivamente brutta” e una “oggettivamente bella”?«Magari esistesse quest’oggettività! È la meta di tanti critici che passano la vita a dirci “questo sì, questo no”. Ho l’età per avere imparato che la sentenza, il giudizio “oggettivo”, la “stroncatura” (bruttissima parola), sono a scadenza come lo yogurt. Nel corso dei decenni sfumano, si sviliscono, si ribaltano. Pensi le stroncature e i giudizi di sufficienza che hanno accompagnato l’opera di Puccini. Pensi a quanto poco erano considerati Mozart e Vivaldi all’inizio del 900. A quanta musica cosiddetta contemporanea del secondo 900, all’epoca laudata dalla critica “oggettiva”, è oggi ridotta a un’afasica anticaglia».Franco Battiato diceva “a Beethoven preferisco l’insalata”.«Io a Stockhausen preferisco Carosone».Diceva anche “non sopporto i cori russi, la musica finto rock” etc. Lei invece cosa non sopporta?«L’abuso dei superlativi: meraviglioso, orrendo, fantastico, disgustoso. La perdita delle mezze tinte è un po’ la perdita della cultura, del pensiero dialettico».Cosa non smetterebbe mai di ascoltare?«LaToccata in do minore di J. S. Bach registrata al pianoforte da Martha Argerich».L’“Inno di Mameli” è brutto?«Brutto no, forse un po’ banale. Ma la sua potenza non sta nella bellezza della musica né dei versi, bensì nel valore simbolico di quella musica e di quei versi. Un inno è un inno, può prescindere da valori estetici puri, che sia di Novaro, che sia di Venditti per la Roma. Certo, quello tedesco, su musica di F. J. Haydn, è di altissima qualità, ma poco importa».Ricorda la polemica per il concerto di Paolo Conte alla Scala? Lei cosa ne pensa?«Paolo Conte, in quanto genio, ha diritto di essere l’eccezione alla regola. Mi dispiace di non aver potuto assistere al suo concerto alla Scala. Io credo però che di regola ci dovrebbe essere un rapporto tra quel che si suona e il luogo in cui si suona. Come sarebbe inadatto Bruckner a La Bussola o al Piper Club (esiste ancora?), così non troverei molto adeguata la musica di Geolier alla Scala o al San Carlo».Tra emozione e perfezione dell’esecuzione cosa privilegia?«La perfezione è un’opzione, apprezzabile ma non primaria. Ascolto ogni tanto qualche nuovo pianista asiatico che esegue perfettamente mille note al secondo ma che, messo davanti a un notturno di Chopin, risulta un po’ inespressivo. C’è differenza fra artista e atleta. La capacità di emozionare un pubblico è una precondizione per praticare l’arte dell’esecuzione. E se è perfetta è meglio».