Corriere della Sera, 16 novembre 2024
Il manuale di esercizi della Crusca
«Non coniugava, l’imperfetto». Quel genio di Dino Buzzati, tanti anni fa, risorse un problema che pareva insolubile con una virgola. Lavorava allora agli Interni del Corriere ed era alle prese con un titolo, diciamo così, scabroso su una sola riga di 27 lettere: come spiegare in 27 lettere tipografiche che la sacra Rota aveva annullato un matrimonio perché lui era impotente, nell’Italia bigotta di allora dove si evitava di scrivere «specifica» andando a capo con le ultime due sillabe (speci-fica) per non titillare turbamenti? Fu lì che lo soccorse l’illuminazione: «Non coniugava, l’imperfetto».
Quanti italiani sono in grado oggi di capire quella deliziosa sfumatura? Mica tanti, sospira Paolo D’Achille, presidente dell’Accademia della Crusca in un amaro sfogo sul Corriere Fiorentino: «Spesso le virgole vengono messe a casaccio: siamo condizionati dal fatto di scrivere al pc, cosa che ci porta a non rileggere e talvolta a fare pause senza aver finito una frase o un concetto. Il punto e virgola poi è quasi in disuso».
E chissà, sulla nuvoletta dei poeti, quanto sospirerà Gianni Rodari, autore per gli scolari d’una celebre filastrocca: «C’era una volta un punto/ e c’era anche una virgola:/ erano tanto amici,/ si sposarono e furono felici.// Di notte e di giorno / andavano intorno/ sempre a braccetto:/ “Che coppia modello”/ la gente diceva/ “che vera meraviglia / la famiglia Punto-e-virgola…».
Il guaio è che non si tratta d’una provocazione futurista alla Tommaso Marinetti che nel 1913 teorizzava di «distruggere brutalmente la sintassi» così che «l’irruenza del vapore-emozione farà saltare il tubo del periodo, le valvole della punteggiatura e i bulloni regolari dell’aggettivazione». No, qui è approssimazione, sciatteria, indifferenza alle regole. Ed è per questo che la Crusca, dopo il successo di Giusto, sbagliato, dipende, ha deciso con Mondadori di tornare nelle librerie con Sbagliando s’impari. Esercizi per mettere alla prova il proprio italiano. Un titolo che ritocca come una esortazione l’antico adagio «sbagliando s’impara» (già rivisto dalla fulminante battuta di Leo Longanesi sul Duce: «Sbagliando s’impera») e si propone come una specie di «manuale d’uso» curato da Paolo D’Achille, Marco Biffi, Rita Librandi, Valeria Saura e Gianluca Barone con un’ambizione spericolata: adescare i lettori con 344 pagine non solo di precisazioni ortografiche, sintattiche e lessicali ma di tante «leccornie» che possano intrigare anche quanti siano convinti di sapere già «più o meno tutto»...
E magari scopriranno che il «buco dell’ozono» individuato dal British Antarctic Survey nel 1985 fu preceduto da un «buco» parallelo nel 1923, cioè 101 anni fa, quando le nuove edizioni del celeberrimo Vocabolario degli Accademici della Crusca edito la prima volta nel 1612, furono interrotte appunto «all’XI volume alla parola ozono». O si stupiranno alla precisazione che non si dice «diatrìba» ma «diàtriba», non «còlossal» ma «colòssal», non «scandìnavo» ma «scandinàvo» e così via... O sorrideranno a new entry nel tempio della lingua italiana di parole come «maranza» cioè «giovani che ostentano un atteggiamento sfrontato, “da strada”, e sono accomunati dai gusti musicali e dal modo di vestire (per esempio gli abiti griffati, perlopiù contraffatti)» in sostanza «esponenti di un nuovo tipo di subcultura giovanile, evoluzione di un certo gusto che in altre epoche o latitudini avremmo detto “tamarro, coatto”». O avranno dei capogiri davanti a indovinelli così: che differenza c’è tra l’àrista e l’arìsta? «Se Tommaso Moro ha inventato l’Utopia, com’è nata e cos’è la distopia?». O ancora: che cos’è un «epiceno»? Esistono i «latti», cioè il plurale di latte?
Sia chiaro, non sono trabocchetti tipo quelli dell’irresistibile Paolo Villaggio nel suo Come farsi una cultura mostruosa (Bompiani, 1972) dove chiedeva cosa fosse «Proust» suggerendo quattro strepitose risposte: «A) Curiosa interiezione usata dai contadini della Vandea durante i pasti prima di vuotare un buon bicchier di vino o quando uno dei commensali starnutisce ripetutamente… “Proust!”. B) Nome del purosangue del principe di Galles vincitore del Gran Premio dell’Arco di Trionfo nel 1933, ’34, ’35. C) Termine americano usato nel linguaggio economico per indicare coalizione d’imprese. Notissimo il “proust” dell’acciaio. D) Celebre scrittore francese sofferente di asma». L’obiettivo degli esercizi, però, è sul bersaglio grosso: catturare l’attenzione dei lettori, in particolare dei giovani, nel modo più stimolante possibile. Ma incardinato sulla cultura vera.
Esempio: «Tra le tante eredità che Dante ci ha lasciato, e di cui non sempre siamo consapevoli, ci sono le espressioni e i versi che, ripetuti per secoli dai parlanti, sono divenuti quasi modi di dire. (…) Osserva alcuni esempi tratti dalla Commedia e utilizzati oggi sui giornali, in televisione o nel parlato quotidiano di noi tutti, se pure con qualche variante linguistica. Individua il significato con cui vengono usati da Dante, spiegando poi quello attuale». Ed ecco allora: «Ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi», «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate», «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa», «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse»…
E le soluzioni a questi e agli altri quiz? Sono capovolte nell’ultima pagina come su certe riviste enigmistiche? Non è un gioco ma un metodo di studio: Sbagliando s’impari risponde punto per punto. Come punto per punto la Crusca risponde da anni (anche online) ai quesiti dei lettori: «Si dice “metter i puntini sulle i o sugli i”?». «Se stesso o sé stesso?». «A me mi: è una forma corretta?».
Non cercate però, nel nuovo «manuale», risposte su schwa, «E rovesciata» o asterischi vari: non sono mai nominati. Neppure una volta. Neppure per sbaglio. Come mai?, si chiederà qualcuno: l’Accademia rifiuta le nuove regole «inclusive» di ogni diversità?
Il nodo è che la Crusca ha già risposto l’anno scorso, a una precisa domanda del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione sulla parità di genere nella scrittura degli atti giudiziari. Spiegando «dopo approfondita discussione in seno al consiglio direttivo», che si possono usare «senza esitazioni» parole come la presidente, la giudice, la pubblica ministera, la questora, la magistrata. Ma non «l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato».
Perché questo è il punto: una lingua viva si evolve nelle persone che la parlano. E come la pronunci la parola «tutt*»?