Corriere della Sera, 16 novembre 2024
Biografia di Monica Guerritore
Se non avesse fatto l’attrice?
«Da ragazzina leggevo tanti libri di avventure. Forse avrei fatto l’archeologa, che poi è quello che faccio adesso: dissotterrare i personaggi dai sedimenti per andare a cercare la loro vita».
Monica Guerritore è l’attrice del momento. È appena tornata a vestire i panni della moglie di Verdone in Vita da Carlo, su Paramount +. Ma, soprattutto, si è fatta amare in tutto il mondo nel ruolo di Gabriella, la protagonista di Inganno, serie dei record: su Netflix per tre settimane di fila è stata la più vista tra quelle non in inglese. Il personaggio le calza per (auto)determinazione e anticonformismo. E lei, del resto, non teme di scandalizzare. Quest’anno ha festeggiato 50 anni dal debutto al Piccolo di Milano con Strehler, che l’aveva scelta per Anja ne Il giardino dei ciliegi.
Alloggiava al Grand Hotel et de Milan. Di notte la chiudevano a chiave in camera.
«Perché ero minorenne. Poi però hanno visto che tornavo anche alle 4 del mattino, perché con Strehler non c’erano orari, e hanno rinunciato».
Prima del debutto fece così male una scena che scappò. Pensa a cosa sarebbe successo se non fosse tornata?
«Non lo so. Io so cos’ero prima e cos’ho sentito dopo, quando sono arrivata al teatro come fosse un luogo naturale. Devo tutto a Strehler. Disse: “Tu farai l’attrice... e bene”. E ho cercato di non deluderlo».
Anche Gabriele Lavia è stato fondamentale.
«Lui era tutto: mio marito, regista, scrittore, drammaturgo, costumista, padre».
Ha scelto lei di stare un passo indietro rispetto a lui.
«Dovevo. La maturazione arriva quando arriva. Nel ‘95, dopo 15 anni insieme, abbiamo cominciato ad allontanarci: prima sulla visione dei personaggi femminili in scena, e poi nella vita».
Preferisce regista o attrice?
«Non sono due cose scisse. Io intendo il mio mestiere come interprete, cioè autrice nella immaginazione e creatrice nella forma del mio personaggio che in alcuni lavori non miei va poi diretto da un regista. Per essere autonoma in questo ho creato una società con i soldi della fiction Amanti e Segreti, ho scritto il testo di Giovanna D’Arco in 15 giorni, e l’ho messo in scena».
La confidenza con il corpo è stata preziosa in moltissimi film, dalla Lupa a Scandalosa Gilda: nasceva dal teatro?
«Il corpo per noi attori di teatro è uno strumento di lavoro: è come cammini, come ti siedi, come abbracci».
Suo marito, Roberto Zaccaria, ha visto Inganno? Anche qui il suo corpo è al servizio del racconto.
«No, continua imperterrito a non guardarlo nonostante le signore del condominio gli dicano che sono straordinaria. Magari lo vedrà più avanti, accelerando nelle scene in cui sembra che io perda la testa».
E lei si è rivista?
«No, non vedo mai le cose che faccio: il personaggio sullo schermo è sempre diverso dall’immagine che ne hai».
Alcuni critici, compreso il nostro Aldo Grasso, non sono stati teneri con la serie.
«Una giornalista del Domani ha usato addirittura la parola “turpe”, come se per avere successo avessimo approfittato del luogo comune sull’amore senile delle donne. Io attribuisco questi giudizi a un’incapacità di recensire qualcosa che non hanno visto arrivare, su cui non trovano parole. La povertà interpretativa di alcuni, la mancanza di rispetto nei confronti di professionisti come me o Corsicato, ha ricondotto tutto alla banalità e al sesso come carta moschicida per pubblico ignorante. C’è anche un altro tema».
Quale?
«Negli ultimi vent’anni quale film ha raccontato una storia dove si ama, si soffre, dove fare l’amore non si chiama sesso, ma la naturale conseguenza di uno slancio emotivo? E in quale, a raccontare la crisi del passaggio d’età e la passione imperfetta e umanissima, è stata la figura femminile? Queste storie le abbiamo viste nei film con al centro la crisi del sessantenne che io chiamo l’uomo con il cappotto: Marlon Brando, Alain Delon... Qui invece c’è una sessantenne che non indossa il cappotto perché a Sorrento fa caldo, ma mette l’impermeabile. Ecco, come dice la Fallaci, non chiedo scusa per il posto che ho occupato».
Sul set avevate l’«Intimacy Coordinator». È importante?
«Io all’inizio l’ho presa sotto gamba. Figuriamoci, con i film che ho fatto... Però è fondamentale per una giovane attrice: basta uno sguardo e l’intimacy ferma tutto».
Se ci fosse stata nell’appartamento di Ultimo Tango a Parigi il destino di Maria Schneider sarebbe stato diverso?
«Avrebbe avuto destino diverso se la cultura non avesse spostato tutta l’autorevolezza di un racconto così complesso sul personaggio maschile, dandogli dignità intellettuale, lasciando a quello femminile il ruolo di corpo da manipolare, senz’anima d’artista».
Prossimo progetto?
«Il film su Anna Magnani».
Ne parla da tempo. Perché ci sta impiegando così tanto?
«Sto penando da due anni. Fino a oggi il mio nome non aveva peso se non come materia preziosa, ma non commerciale. Inganno mi ha aiutata. Ora ho interesse in tutto il mondo. Comincio la preparazione a gennaio e a marzo inizio a girare».
Già nella Lupa ricordava Anna Magnani, negli occhi.
«Ai tempi, per tenerli sempre a mente, avevo incorniciato la sua foto nella mia camera. Non vedo l’ora di pronunciare la sua frase: “Se io mi metto davanti alla macchina da presa e non parlo, voi ve ne andate tutti a casa”. L’attore è la parte più importante dell’industria cinematografica ed è considerato l’ultima ruota del carro».
Nella Lupa Giancarlo Giannini si fece male. Fu la sua involontaria vendetta?
«Avevamo avuto una relazione 20 anni prima. Con quel film il cerchio si è chiuso. Ora posso dire che ero solo infatuata: uno che ti lascia dall’oggi al domani non è il mio tipo. Le storie possono finire, ma non così. Ancora ce l’ho qua».
In Vita da Carlo la troviamo accanto a Verdone. Nel docufilm di Dago, Roma, Santa e Dannata, Verdone racconta di quando andaste insieme al Number One e poi lei sparì con Alain Delon.
«Avevo 18 anni e stavo già con Giannini, ma era una relazione clandestina. Delon mi stava coprendo: loro erano amici. Mi aveva portata alla Porsche verde pisello di Giancarlo che mi aspettava. Poi l’anno dopo con Alain ho lavorato al film L’homme pressé. Mi fece una bellissima dedica: “Il talento non ha né età né frontiere. Grazie per esserne la prova”».
Ed era vera la sua presunta relazione con Gianni Agnelli?
«Ma no! L’Avvocato era il padre di Margherita, la mia migliore amica ai tempi del collegio in Svizzera. Non era una figura paterna, l’ho vissuto piuttosto come un mentore artistico. Grazie a lui ho visto Lichtenstein, Warhol, Bacon, Hopper: gli devo tutta la biblioteca di immagini che ho maturato in quegli anni. E poi ricordo le vacanza tutti insieme a Conca dei Marini dall’avvocato d’Urso: da lì si partiva per Castellammare di Stabia, imparavamo a riconoscere le ere geologiche dalle linee sulle rocce. E poi le visite in silenzio a Pompei e a Paestum».
Davvero suo marito le fissa gli appuntamenti per parlare con lui di lavoro?
Ride. «Sì, ma perché io mi sveglio presto e fin dal mattino lo travolgo con le cose da fare, i finanziamenti da trovare. Lui invece mi dice: no, ne parliamo dalle 10 alle 11.30».
È felice con lui?
«Sì, molto. Condividiamo tutto e poi mi guarda sempre come il primo giorno».
Non mi pare le manchino gli sguardi!
«Ma in lui non scorgo mai quello che a volte io percepivo in Gabriele: tu non vai bene».
Sua madre è morta di Alzheimer. Ha paura di ammalarsi pure lei?
«È stato faticoso per noi, ma per lei è stato come vivere in un mondo senza coordinate. Non so quando l’ho salutata. Non ho paura. Io di ferite ne ho avute molte, tanti spaventi: l’anno scorso mentre stavo mettendo in scena Ginger e Fred sono stata operata di corsa per una cisti all’ovaio. Anche lì mi ha salvato la diagnosi precoce, come per il tumore al seno. E ora, a distanza esatta di un anno, il mio angelo custode mi ha regalato il successo di Gabriella».
Le sue figlie Maria e Lucia?
«Penso di aver dato loro un buon esempio nel mostrare come vivo il mio lavoro: me le portavo dietro ogni volta che potevo».