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 2024  novembre 15 Venerdì calendario

Intervista a Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano

«Quando girai Milano, oh cara nel 1963 gli immigrati si chiamavano terroni. Andavo a riprenderli quando arrivavano in stazione Centrale e si fermavano sconvolti dalla gioia davanti al grattacielo Pirelli. Anche la nostra attività politica era rivolta a loro. “Prima case, scuole, ospedali” era uno slogan socialista. Oggi andrei sulle navi che fanno lo yo-yo con l’Albania perché temo che quello sguardo sui nostri fratelli del Sud, che ormai provengono dall’Africa e dall’Asia, si sia perso». Se fosse per Paolo Pillitteri, 83 anni, sindaco di Milano dal 1986 al 1992, grande cinefilo, per più di cinquant’anni marito di Rosilde Craxi («Per scherzare dicevo che avrei cambiato la mia firma in cdC, cognato di Craxi»), amico di Fellini e Mastroianni («Sui set discutevano perché Marcello stava sempre al telefono con le sue donne in giro per il mondo»), si potrebbe trascorrere una mattinata, ma forse la vita intera, a parlare solamente di cinema e politica. Nel bar di viale Piceno dove scende a prendere il caffè insieme alla seconda moglie Cinzia Gelati (sposata nel 2022, il suo angelo custode) è tutto un «Buongiorno sindaco» e un «Ciao Pilli». «Ogni tanto penso di andarmene, di fuggire in campagna a guidare una mia delle Moto Guzzi, ma come si fa? – butta lì sornione -. Milan l’è Milan…».Dica la verità, fare il primo cittadino era il suo sogno da bambino?«Ma quando mai... Sono nato a Sesto Calende e cresciuto a Postalesio, in Valtellina. Papà maresciallo dei carabinieri siciliano, salito in montagna dopo l’8 settembre per unirsi alla Resistenza, mamma staffetta partigiana. Ricordo le suore dell’asilo che mi dicono di lanciare i fiori quando passa il corteo della Liberazione. Da adulto scoprii che fu papà il primo a entrare a Sondrio pistola in pugno».Non ve l’aveva mai raccontato?«No, e quando gli chiesi il motivo di quel silenzio mi rispose: “La pistola era scarica”. Era fatto così. Dopo la guerra il generale Dalla Chiesa voleva portarlo con sé in Sicilia, ma mia madre non ne volle sapere. Finimmo a Stradella, in provincia di Pavia. Passeggiando sentivi gli artigiani che accordavano le fisarmoniche».Dove nacque la passione per il cinema?«In collegio dai salesiani a Sondrio. Un film tutte le domeniche, anche se i preti erano molto moralisti. Mi interessava la tecnica: le inquadrature, il montaggio, la recitazione. Anni dopo, quando Burt Lancaster era a Milano per girare i Promessi Sposi, lo feci salire sul pulpito del Duomo spiegandogli come interpretare il cardinal Borromeo. Lui non si capacitava del fatto che il sindaco parlasse come un regista. La mia lezione funzionò: qualche fedele, vedendolo, si fece il segno della croce».Quando arrivò a Milano?«A 16 anni, dopo il ginnasio. Mi iscrissi al Berchet. Come prof di religione avevo don Giussani. Fascino immenso. Attualizzava il messaggio di Gesù lasciando che fossero i ragazzi a fare il proprio percorso. E poi era moderno: capiva gli amori giovanili».Come si avvicinò alla politica?«Colpa di Carlo Tognoli, mio vicino di casa. Mi parlò di Craxi e mi disse che dovevo conoscere il Capo. Gli risposi che ero anarchico, ma che qualche lavoretto avrei potuto farlo. Nel frattempo, infatti, mi ero iscritto alla scuola civica di cinema. Mi portò a Palazzo Marino. Bettino era insopportabile, però ci si legava subito a lui».Il primo incontro con Craxi?«Nel corridoio del suo ufficio da assessore all’Economato. Avevo in mano la mia Zeiss Icon e, davanti a questo gigante che mi chiedeva cosa stessi facendo, risposi che ero lì per documentare la sua attività e che per me il cinema era tutto. Sbattè la porta urlando: “Voi non capite un c…. La politica è tutto”. Enza, la sua segreteria, mi rassicurò: “Fa così con tutti"».Funzionò. Lei diventò uno dei suoi fedelissimi…«Nella vita gli uomini hanno bisogno di qualcuno da seguire. Da bambini è il papà, ma dopo? Bettino era un leader. Non diceva mai grazie quando portavi a termine un compito, lo faceva dopo settimane».Litigavate?«No, però ci dividevano molte cose: lui era filo-arabo, io filo-israeliano, lui garibaldino, io cavouriano. Senza Cavour, Garibaldi starebbe ancora pulendo verze».Fu lui a presentarle la sua futura moglie?«No, per lui la famiglia era lontana. Non se ne occupava. Con Rosilde ci eravamo conosciuti a Lettere e Filosofia. Quando ci sposammo eravamo poverissimi: lei si alzava alle 5 per andare a insegnare a Barlassina, io mi barcamenavo fra caroselli e sceneggiature».L’ultima volta che parlò con Craxi?«Una telefonata straziante. Era furibondo perché non gli permettevano di tornare in Italia per curare il diabete. Fu un’ingiustizia gratuita. Al di là di tutto parlavamo di un leader politico, non di Vallanzasca. Io, da cattolico, spero sia andato in paradiso».Un leader senza eredi…«Il più bravo dopo di lui era Claudio Martelli, poi Gianni De Michelis. Però Tangentopoli travolse tutto. Distrusse i partiti e da allora la politica non c’è più. Si è provato con il leaderismo, con il tecnicismo, ma oggi vota il 48 per cento dei cittadini. Una cosa spaventosa».I politici di oggi non le piacciono?«L’unico paragonabile è Matteo Renzi, ma è un casinista».Giorgia Meloni?«È brava, ma ha il difetto di voler anche apparire tale. Per certi versi si sente ancora all’opposizione. Deve stare attenta. Prima o poi, come tutti i presidenti del Consiglio italiani, troverà qualcuno dentro la sua maggioranza che proverà a farla fuori».Il suo successore Beppe Sala?«Ha gestito la città alla meno peggio. Però non può ripresentarsi e temo che questo pregiudicherà la sua voglia di faticare ancora».Silvio Berlusconi: qual è la prima cosa che le viene in mente?«Lui e Bettino che camminano sotto braccio in piazza Navona e che discutono della necessità che le reti tv Fininvest avessero la diretta. I comunisti erano contrari. Berlusconi parlava, Bettino annuiva. Io e Fedele Confalonieri dietro, anche noi a braccetto. Dopo tre vasche Fedele mi guarda e mi fa: “Mi el savevi che l’era inscì” (Io lo sapevo che era così, ndr). Avevamo capito che avevano trovato un accordo».Rimpiange gli anni Ottanta?«Si percepiva la trasformazione della città brumosa e industriale nella città dei servizi. Da un giorno all’altro apparvero le modelle. Si usciva dal decennio del terrorismo, c’era voglia di stare insieme».Ogni sera una festa…«Io per la verità uscivo pochissimo. Però lo slogan “Milano da bere” di Marco Bignami nacque nel mio ufficio guardando gli operai della M3 che entravano nei bar a prendere l’aperitivo con addosso l’elmetto giallo. Erano il simbolo della dinamicità».Almeno alle prime della Scala sarà andato…«Una volta venne il principe Carlo. Quando salimmo nel palco reale gli chiesi come mai non avesse portato la principessa Diana. Lui rispose che, dopo aver visto i gioielli e l’eleganza delle sciure milanesi, non era poi così dispiaciuto di essere venuto solo. “Due giorni qui con mia moglie e sarei diventato l’uomo più povero d’Inghilterra”. Mi folgorò».