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 2024  novembre 15 Venerdì calendario

Intervista a Lidia Ravera

Lidia Ravera, scrittrice e sceneggiatrice, nel 2026 il suo primo romanzo, Porci con le ali, compirà 50 anni, cosa si impara strada facendo?
«Vivendo di scrittura impari ad avere sempre da zero a tre anni, età in cui gli esseri umani cambiano ogni giorno. È un modo di invecchiare meno implacabile degli altri, perché ti sorregge l’illusione del miglioramento perpetuo. La scrittura è un continuo esercizio muscolare dell’anima e della mente».
Per tutti?
«Se scrivere è un mestiere, allora è diverso: ha le sue regole, le sue furbizie, le sue carriere».

Il talento?
«Il talento è stato il mio peggior nemico, scrivere mi veniva troppo facile, 50 anni fa. Tutto ciò che è facile vale poco. Contano la sfida, il lavoro sulla pagina, i dubbi... il desiderio di buttare tutto nel secchio. E quello non me lo faccio mancare».
Si è mai sentita parte di una comunità letteraria?
«Quando sono arrivata a Roma, nel 1975, tutti mi dicevano: “Perché prima c’era... andavamo da Otello... mangiavamo questo... e parlavamo di letteratura e litigavamo tutta la sera”. Tutto già finito nel ‘75. Adesso poi la frantumazione è totale. Se, ed è raro, incontro altri scrittori, non si parla di letteratura».
E di cosa?
«Quanto ti prende il tuo agente? Come sei piazzato in libreria? Ma è vero che la tua casa editrice compra le vetrine?
Esistono bolle letterarie? La escludono?
«Dai tempi di Porci con le ali mi incorona un alone di zolfo che non mi soffierò mai via. Se hai successo diventi un brand, e le etichette sono difficili da eliminare. Se fossi un critico, avrei la curiosità di leggere una ragazza che scrive un libro da 3 milioni di copie e poi altri 34 romanzi, che non somigliano a quel primo. Tutti con un buon successo di pubblico. Invece la curiosità è sempre per l’ultimo arrivato. Ti stroncano col silenzio. Oggi. Io almeno sono stata stroncata al mio secondo romanzo qui sul Corriere della Sera da un grande scrittore, Goffredo Parise. Una medaglia».
Ne soffrì?
«Piansi. Tempo dopo intervistai la pittrice Giosetta Fioroni, moglie di Parise: “Ma tu non hai idea – mi disse –, dopo la stroncatura di Goffredo al tuo libro, che peraltro gli era piaciuto, ricevemmo decine di suppliche di aspiranti a essere stroncate”. Il titolo del pezzo era Fra Pitigrilli e i Baci Perugina. Io che avevo letto i suoi libri e amato i Sillabari, mi chiesi: “Ma perché un uomo tanto intelligente ha fatto un articolo così stupido?”. Per fortuna ero occupata in un parricidio rituale insieme alle menti migliori della mia generazione. L’ho sistemato con i padri, e sono andata avanti».
Cosa rimane di quei moti ideali?
«Poco. Oggi come sei nato muori. L’ascensore sociale è fermo, le generazioni si accavallano, invece di susseguirsi. Si copiano, ma non si parlano. Quando un ragazzino di 17 anni ammazza la famiglia partono le domande senza risposta. Io ho vissuto tempi più decifrabili, tempi in cui se ti giocavi la giovinezza sparando era per un’idea».
Qual è il problema?
«La mancanza di empatia e una diffusa paura di soffrire. Corriamo verso una anestesia generale, mentre è in atto un genocidio di intollerabile violenza».
E i vostri parricidi rituali?
«Sono andata via di casa a 18 anni come tanti. Era scontro continuo coi i genitori, i professori, gli intellettuali, ma uno scontro è sempre una relazione. Adesso le generazioni vivono vite parallele che non si incontrano mai e c’è un silenzio agghiacciante».
Qual è il canone delle sue letture?
«Alla televisione, il sabato sera, quand’ero bambina, c’erano i romanzi sceneggiati. Vidi L’Idiota di Dostoevskij. Mi colpì. A mia madre piaceva Giorgio Albertazzi, che faceva il principe Myškin, e comprò un 45 giri con le sue letture. Chiesi a mio padre: “Ma voi avete questo romanzo nella libreria?”. All’epoca la borghesia leggeva. E lui: “Forse devi aspettare qualche anno”. Dissi: “Vabbè, io provo, se mi annoio smetto”. Lo lessi tutto. E mi sentii subito meno sola».
E Tolstoj?
«Preferivo Dostoevskij, era più drammatico, come i Rolling Stones. Tolstoj era come i Beatles, più narrativi, meno rabbiosi. In Dostoevskij trovavo la colpa, il peccato, la purezza. Se leggo ancora molto? Seguo qualche scrittrice, per esempio, Rachel Cusk. Sono selettiva perché ho poco tempo. Ho deciso di leggere da me in su. Quelli da me in giù me li risparmio: ho ancora bisogno di imparare».
Sente una responsabilità verso i lettori?
«Sì: dare loro qualcosa di più di una serie. Non pubblico un libro se penso che non ci sia almeno una frase da sottolineare, che non faccia né ridere, né piangere, né pensare».
I premi?
«Pago il mio iniziale successo indecente con l’assenza dai premi che contano. Spesso quando mi arriva la dozzina dello Strega (sono fra i votanti) resto basita. Non sono tutti capolavori, diciamocelo».
Le piacerebbe vincere lo Strega?
«Da morire. Sarebbe come una laurea. Mi sentirei finalmente assolta dal peccato originale. Aver fatto pipì nel salotto buono della letteratura, prima che diventasse di moda».
Il suo metodo di scrittura?
«Scrivo in modo fluviale, sotto dettatura di una parte di me (la migliore). Poi lavoro molto sulla tessitura della pagina. La scrittura è il mio strumento di ricerca. Il lavoro di perfezionamento può andare avanti all’infinito».
Alcuni pensano che Flaubert o Proust siano sopravvalutati.
«Ho letto la Recherche tutta di fila, quando avevo l’età in cui hai tempo per farlo. È stato un viaggio appassionante e travolgente. L’educazione sentimentale ciclicamente la rileggo. Non si smette mai di imparare».
La scelta della politica con Lotta Continua?
«Quando avevo 14 anni mia sorella mi ha spiegato che i buoni erano i comunisti, perché volevano l’uguaglianza. Ho continuato molto a lungo a credere che fosse possibile, sapere chi sono i buoni. Ricordo le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, potrei cominciare domani quelle per Gaza, se non fossero vietate. Non so più chi sono i buoni ma so chi subisce l’impensabile. Nel partitino di Lotta Continua, mi occupavo della sezione culturale, i Circoli d’Ottobre, si organizzavano concerti, nutrivo a vent’anni un giornale, Il pane e le rose. Mi occupavo delle rose».
Quando è uscita dal partito?
«Lotta Continua nel ’76 si è disintegrata. Colpa di quelli che avevano scelto la lotta armata? Merito delle femministe? Lo slogan che racconta la reazione delle compagne è: “A sinistra in piazza, a destra nel letto”. Si respirava un soffocante maschilismo. Non era cambiato niente? Con un senso di urgenza sono diventata femminista».
Parliamone.
«La prima ondata erano le suffragette, la seconda siamo state noi negli anni Settanta, la terza è il femminismo dell’uguaglianza che celebra qualche solitaria testata nel tetto di cristallo come se fosse risolutiva. Ho molta fiducia nella quarta ondata, il transfemminismo, perché mi sembra voglia immaginare un mondo di persone. Al di là della fissità dei ruoli di genere».
Nel suo ultimo libro, Un giorno tutto questo sarà tuo, in cui a parlare è il quindicenne Seymour, si può leggere una critica al MeToo?
«Credo che il MeToo sia a un tempo giustissimo e tuttavia pericoloso. Dare in mano a qualsiasi donna, e non siamo tutte sante, lo strumento per rovinare un uomo non va bene. Questo nulla toglie alla necessità di denunciare ogni volta che un uomo prova a mettere le mani addosso a una donna, perché lui ha il potere e lei no. Faccenda che peraltro va avanti dall’età della pietra».
Ci sarà mai un ultimo libro dell’umanità?
«Sarà sicuramente un repêchage. La letteratura ha bisogno di pace. Chi può raccontare una storia che abbia senso, in questa alternanza di siccità e tempesta, mentre la sua casa sprofonda nel fango e volano i droni a distruggere quel che resta del mondo?».