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 2024  novembre 14 Giovedì calendario

In morte di Roy Haynes

Dei molti batteristi che hanno segnato la storia del jazz – da Art Blakey a Elvin Jones – Roy Haynes è quello che vanta la carriera più lunga e avventurosa. Forse è stato il più grande, forse no, ma è stato quello che ha rivoluzionato profondamente il jazz moderno, cambiando i canoni ritmici di un mondo in evoluzione che copre tutti gli stili, dal blues al post bebop degli anni Cinquanta passando per il free jazz e l’avanguardia. Ora i suoi tamburi trionfali, che ne fecero un re soprattutto negli anni Cinquanta-Sessanta, non rimbombano più. Haynes ci ha lasciato l’altro ieri (il 12 novembre) a 99 anni vissuti all’insegna dell’iperattività, delle collaborazioni con tutti i jazzmen più importanti e alla guida dei suoi gruppi con cui ha dominato la scena.
L’annuncio è stato dato dalla figlia con uno scarno comunicato, e così se ne va nel silenzio colui che veniva chiamato «il padrino del ritmo» per le sue vorticose esecuzioni e anche «Snap crackle» perché – sin da bambino – teneva il tempo e il ritmo su qualsiasi superficie gli capitasse a tiro. «I piatti e i tamburi sono la mia naturale estensione – ebbe a dire una volta – Li sento, li vivo e cerco di trasmetterli prima ai musicisti con cui ho l’onore di suonare, poi a chi li vuole ascoltare e farli suoi. La batteria non è solo ritmo, è suono, è tempo, è vigore». Partendo da questa base elaborò uno stile unico, fatto di infiniti riflessi e pulsioni che lo fecero diventare uno dei musicisti più richiesti da tutti e lui col tempo creava e cambiava genere con la disinvoltura di un gigante, passando dal suono dolce e lieve di Lester Young negli anni Quaranta alle frenetiche evoluzioni avanguardistiche di un Archie Shepp. «Il jazz è arte popolare – diceva – che per fortuna si evolve continuamente per raccontare la storia di un popolo ma non solo, racconta la storia del mondo e io voglio fare parte di quella storia».
E ne ha fatto parte, eccome. Nato a Boston il 13 marzo 1925, approdò a New York a metà anni Quaranta e venne subito scoperto dal glorioso Lester Young.
Esaltò anche i dischi di una regina della voce come Sarah Vaughan per poi passare ad artisti più creativi come i pianisti Bud Powell e Thelonious Monk. Tutti rimanevano incantati dal modo in cui riempiva gli spazi ponendo sempre la batteria in primo piano senza invadenza né prosopopea. Importante fu la sua collaborazione con Charlie Parker. Basterebbe ascoltare l’album dal vivo del 1950 Bird at St. Nicks per capire le magiche interazioni tra il grande sassofonista e l’inventiva di Roy. Il quale dedicò a Parker l’album Birds of a Feather. Agli inizi degli anni Sessanta lo troviamo al fianco di artisti come Eric Dolphy e Andrew Hill, mentre nel 1963 è stupendo appoggio di John Coltrane nell’epico Impressions. Fu al fianco di Coltrane per un lungo periodo, ridefinendo il bop. Prima era stato anche nella band di Bud Powell e al fianco di Miles Davis in album minori del trombettista come Miles Davis and Horns. Un giorno gli domandarono come facesse a suonare con musicisti tanto differenti. «La parola cardine è energia e feeling; se c’è questo non sei più un musicista ma un’entità e le cose escono da sole». Così diede il suo supporto anche ad altri geni come il «saxophone colossus» Sonny Rollins o il già citato Monk e all’avanguardia del free jazz di Roland Kirk e Pharoah Sanders. Nel 1968 incise con Archie Shepp e Chick Corea quel Now He Sings, Now He Sobs che fece breccia anche presso gli appassionati di rock. Gli anni Sessanta segnarono anche la nascita della sua band, Hip Ensemble, crogiuolo di talenti e di improvvisazioni.
Fino ai nostri giorni ha continuato a incidere per sé o per altri per etichette di primo piano come Blue Note e Impulse! e la sua lunghissima carriera è stata segnata da numerosi premi come l’inserimento nella DownBeat Jazz Hall of Fame (2004) o il Grammy alla carriera ricevuto nel 2011 a 86 anni.