La Stampa, 14 novembre 2024
Intervista a Ilie Nastase
Torino – Ilie Nastase e il suo doppio, difficile capire chi diverte di più. Se Ilie in persona, il primo numero 1 nella storia del computer – anno di grazia 1973 – che oggi pomeriggio sarà presente all’Inalpi Arena per salutare il suo ultimo discendente, Jannik Sinner. O il Nastase campione e agente provocatore, fuoriclasse e playboy, ammirabile al cinema Nazionale stasera a Torino, e il 18, 19 e 20 novembre in tutta Italia, protagonista di Nasty, un bellissimo, esilarante, commovente docufilm sulla sua vita.Nastase, si è più commosso o divertito a rivedersi sullo schermo?«Ti vengono alla mente soprattutto i rimpianti. Ma se sei bravo non lo dici».
Uno ce lo svela lo stesso?
«Non aver potuto mostrare la scena di quando a Monte-Carlo feci buttare un gatto nero in campo per fare arrabbiare Adriano. La sera prima uno ci aveva attraversato la strada mentre andavamo al ristorante, Adriano era diventato matto, infatti si arrabbiò tantissimo e io vinsi facile. Ma nessuno ha il filmato...».
Faceva tanti scherzi?
«Sì, e se li faceva qualcun altro tutti pensavano comunque che ero stato io».
È stato anche in politica.
«Volevo diventare sindaco di Bucarest. Lo scherzo più grande di tutti».
A Wimbledon fece spostare una giudice di linea caricandosi la sedia sulla testa...
«Aveva sbagliato due palle, le chiesi: “Signora, ci vede bene?”. “Sì, ma ho dovuto togliere gli occhiali perché oggi ho un problema”. “E qual è?”. “Ho il sole in faccia”. Allora ho spiegato all’arbitro che la signora doveva cambiare posizione, e l’ho fatta spostare. Alla fine mi ha pure ringraziato».
Oggi sarebbe impossibile.
«Quest’anno a Dubai Rublev ha detto qualcosa in russo alla giudice di linea, e l’hanno buttato fuori. Io non sarei riuscito a giocare tre partite in fila».
Era meglio allora?
«Le regole non erano così dure. Comunque anche ai miei tempi c’erano le multe. Essere Nastase non era gratis».
Chi è il Nastase di oggi?
«Non esiste, impossibile. Dopo di me c’è stato McEnroe, un po’ Connors. Non puoi neanche guardare storto il giudice di sedia. Ma non fatemi paragonare il tennis di oggi a quello di allora. Sono troppo diversi».
Sinner oggi è davvero il più forte o le piace di più Alcaraz?
«Sono tutti forti. Jannik oggi è il numero 1, ma non so quanto dura: un anno, due, cinque? Difficile dirlo. Il più forte è quello che vince di più, no?».
Che cosa la impressiona di lui?
«Che è completo, ha tutti i colpi. Serve molto bene, ed è fondamentale. È il campione del momento».
Ha un consiglio da dargli quando lo incontrerà?
«Sa, ai miei tempi c’erano gli australiani che erano i più forti. Mi chiedevano: quanto ti alleni? E io: “Non so, mezz’ora, venti minuti...”. “No, devi giocare doppio e doppio misto”. Così ho vinto due volte il misto a Wimbledon e cinque doppi negli Slam. A Jannik servirebbe per migliorare un po’ la volée».
Il tennis va bene così o c’è qualcosa che cambierebbe?
«Il problema è che se cambi qualcosa poi hai voglia di cambiare ancora e non si finisce più. Come nel calcio con il fuorigioco. Meglio lasciar stare».
È vero che agli inizi lei e Tiriac dormivate nei parchi per risparmiare i soldi dell’albergo?
«Sì, è capitato. Anche in spiaggia. Oppure andavamo in alberghi modestissimi. Oggi Ion è miliardario, io no. Ma siamo ancora vivi».
Nel film Tiriac racconta che per pagarle una pizza tutti gli altri facevano una colletta. Avversari in campo, amici fuori.
«Si andava a mangiare insieme, eravamo tutti uguali. Si parlava italiano, francese, inglese, uno vinceva una settimana, l’altro quella seguente. Non era così importante. Nessuno si arrabbiava. Anche perché non c’era tanta differenza nel montepremi. Oggi non è così. I tennisti di oggi non si conoscono, non si allenano insieme prima di giocare una partita».
Sinner ha vinto 6 milioni di dollari in un’esibizione. Invidioso?
«No, perché quelli prima di me guadagnavano meno di me e quelli dopo Sinner guadagneranno più di lui».
Qual è la vittoria di cui va più orgoglioso?
«Vincere, perdere… Per me non era così importante. La più bella partita che ho giocato l’ho persa in finale a Wimbledon contro Stan Smith, 7-5 al quinto. Non c’erano le sedie, non ci riposavamo al cambio campo, al massimo bevevamo un sorso d’aranciata. Se la giocassimo oggi durerebbe sette ore».
Resta una sconfitta.
«Due mesi dopo agli Us Open ero sotto due set a 1 e 5-2 contro Ashe in finale, e ho vinto io. Forse se avessi vinto a Wimbledon avrei perso lì, chi lo sa».
Nel film lei e Tiriac sembrate una coppia di comici.
«Sì, ma sono io quello che fa ridere. Ion è più serio».
Tiriac sostiene che è colpa sua se la Romania ha perso la finale di Coppa Davis del ’72 a Bucarest contro gli Usa. È vero?
«Io avevo giocato gli Us Open, poi ero andato a Seattle, a Los Angeles e sono arrivato tardi. Non me lo ha mai perdonato».
La Davis di oggi le piace?
«Non è più la Davis. Non per me. Allora bisognava giocare sette incontri per vincerla. Si giocava in tutti i Paesi, era una grande pubblicità per il tennis. Oggi si gioca in una sola nazione: non ha senso».
Lei ha vinto 4 volte il Masters, come si chiamavano allora le Atp Finals. Qual è il ricordo più bello?
«La quinta finale, che ho perso con Vilas. Scherzi a parte, allora si giocavano 25-30 tornei più la Coppa Davis. Gli altri erano stanchi, io ero più fresco di tutti».
All’Italia è sempre stato molto legato.
«Ci ho vissuto a lungo, specie a Roma. Per sei mesi sono stato ospite di Francesco D’Alessio, aveva i cavalli a Capannelle, andavamo alle corse. Al Foro Italico quando dovevo incontrare un italiano pensavo, ahi ahi ahi. Però poi tifavano tutti per me».
Bertolucci per lei era «macaroni».
«Sì, ma non si offendeva, un gentleman».
E Panatta?
«Un gentleman anche lui. Ma s’incazzava di più».