la Repubblica, 14 novembre 2024
Una mostra su Amore e Psiche
Un imponente specchio stile impero ti accoglie all’ingresso di questa piccola, intelligente mostra su un mito tardo ed enigmatico dell’antichità, quello di Amore e Psiche. È un grande specchio basculante, ottimo esemplare di quel genere di arredo che a metà dell’Ottocento donò per la prima volta alle signore borghesi il privilegio di ammirarsi a figura intera, di pavoneggiarsi un po’ nello spazio intimo del sé prima di uscire per la soirée, come la signorina in vestaglia gialla (giallo, il colore più irriverente) nel quadro di Federico Zandomeneghi, messo giustamente lì di fronte.E quel tipo di specchio, i mobilieri parigini lo battezzarono proprio psyché, chissà perché, forse avevano intuito che l’anima, il soffio vitale (da psýcho, in greco antico respirare, soffiare, ci informa Daniela Ferrari, la curatrice della mostra) è anche pensiero, ovvero riflessione. Ma messo qui, alla partenza di Psiche allo specchio, viaggio fra le interpretazioni artistiche di quella favola di Apuleio (dipinti, sculture, incisioni dalle collezioni della Bper, che ospita la mostra nella sua sede bancaria di Modena fino al 9 febbraio), è il miglior pannello introduttivo che si potesse pensare, perché a colpo d’occhio ti dice che in mitologia tutto si tiene, e dietro alla vicenda romanticissima dell’amore tormentato di Psiche, fanciulla di bellezza tale da ingelosire Venere stessa, e Amore, il dio bambino ingenuo e volubile, si nasconde dopo tutto il mito di Narciso: l’amore non ama mai altro che sé stesso.La più bella favola dell’antichità, almeno secondo Voltaire, ha avuto forse più interpretazioni che letture, e la povera Psiche è stata metaforizzata a morte, spesso malignamente; Baudelaire additò la sua “demoniaca curiosità”, Leopardi le rimproverò la sua stessa infelicità che “provenne dal voler conoscere”.Una sorella laico-pagana di Eva, insomma, su cui gli artisti si sentirono più liberi di infierire che sulla progenitrice biblica. Infierire, sì, perché anche le idealizzazioni possono essere feroci, o dileggianti, e le belle fanciulle del mito, nell’arte, sono sempre oggetto di un voyeurismo neanche tanto sublimato: le vicende di giovinette terrestri e innocenti ninfe, prede degli dèi, sono l’eccellente pretesto, su cui i pittori si tuffano, per esibire caste nudità, seni virginali, incarnati golosi, carni callipigie. Ecco ad esempio il barocco Badalocchi che ce ne offre addirittura una mezza dozzina, di signorine ignude al bagno. E dunque è stata una buona idea, tanto per spoilerare un po’, chiudere la mostra con l’ Amore e Psiche del Canova pubblicato su una finta copertina di Playboy destrutturata da Andrea Mastrovito.Perché in fondo che cosa ha estratto l’arte da quel mito su cui si esercitarono Van Dyck, Raffaello, Giulio Romano? Non la vicenda intricatissima e piena di colpi di scena che Max Klinger alla fine dell’Ottocento trasforma, un po’ faticosamente, in venticinque incisioni, tutte da sfogliare in mostra, come un lungo protofumetto art nouveau. La maggioranza degli artisti si limita a estrarre un’idea, un’immagine, abbandonando la narrazione per la metafora e l’allegoria. Mentre un adolescente Amore le carezza il seno, e la sua verginità vola via sotto forma di farfalla, la pudica Psiche di François Pascal Simon Gérard ci guarda, con un’espressione tra vergogna e smorfietta, e ci invita provocante dentro il gioco amoroso; questo basta al pittore. Ma in fondo, ci spiega Andrea Pinotti nel testo in catalogo, «non è proprio questo il gioco che ci piace fare? Indugiare sulla soglia che separa e al contempo congiunge la realtà e l’immagine, la presenza e la rappresentazione?». L’arte, dai miti estrae sempre solo un distillato emotivo, una essenza profumata con cui addolcire la nostra visione di noi stessi e del mondo; e allora anche questa tra Amore e Psiche diventa, a piacere, la lotta fra divino e umano, tra universale e particolare, tra conscio e inconscio, tra istinto e ragione. Anzi, a ben vedere, questa invenzione romanzesca della latinità matura sembra voler raccogliere e mettere a sistema la complessità di tutti i miti precedenti, che alla fine dei conti questo sono, battaglie fra pensiero e sentimento, per la gioia dei professionisti al cui mestiere Psiche prestò il suo stesso nome. Primo fra tutti lui, Freud, il patriarca della psicanalisi, dopo la cui opera di invasione delle narrazioni classiche tutti i miti, da Edipo a Narciso, da Elettra a Cassandra, non furono più altro che la nomenclatura delle nostre patologie, la tassonomia delle nostre sindromi, l’etichetta dei nostri complessi.